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Ararat

Regia di Atom Egoyan vedi scheda film

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La recensione su Ararat

di degoffro
8 stelle

Per il suo film più personale e sentito, incentrato sul genocidio del popolo armeno da parte dei turchi, Atom Egoyan, regista canadese di origine armena, sceglie una messa in scena particolarmente complessa in cui vari piani temporali e narrativi si intrecciano di continuo, secondo una struttura a puzzle caratteristica dell'autore. Se da un lato la scelta dell'espediente metacinematografico (un pomposo ed enfatico film nel film, forse un'onesta ed intima confessione da parte di Atom, la personale presa di coscienza sull'impossibilità per lui di rappresentare nel modo giusto ed oggettivo quell'eccidio) può apparire legittima per mantenere, appunto, un certo distacco emotivo dalla scottante materia trattata, dall'altro, i troppi labirintici e non necessari sviluppi della storia ed i molteplici personaggi non convincono e finiscono per creare più che altro confusione e disorientamento. Nella sua dolorosa autenticità è molto bella la vicenda che ha per protagonista il giovane Raffi, da sempre vissuto in Canada ma figlio di un terrorista armeno ucciso quindici anni prima mentre stava per realizzare un attentato contro l'ambasciatore turco. Il ragazzo, dal rapporto fortemente conflittuale con la madre (altro personaggio tormentato e ricco di sfaccettature, dall'enigmatico e lacerante passato, interpretato dalla moglie del regista, la bravissima Arsinée Khanjian, presente in tutti i film di Egoyan) grazie al fatto di essere coinvolto nelle riprese del film che rievoca gli eventi di cui ha solo sentito parlare, sente la necessità di fare un viaggio in Armenia per riscoprire le sue origini e tentare di capire gli ideali che animavano il padre, salvo poi prendere malinconicamente atto che "visitando quei luoghi mi rendo conto di quanto abbiamo perduto. Non solo la nostra terra e tante vite umane, ma soprattutto la possibilità di ricordare. Qui non c'è nulla che dimostri che sia accaduto qualcosa!". Più pretestuosa e forzata appare invece la vicenda di Celia, sorellastra di Raffi con cui ha peraltro una inutile relazione incestuosa, così come non sempre ben gestita e focalizzata è la storia incentrata sulla figura del celebre pittore armeno Arshile Gorky, morto suicida. E anche il personaggio interpretato da Christopher Plummer, un doganiere all'ultimo giorno di lavoro prima della pensione, con una serie di problemi familiari (non ha mai accettato l'omosessualità del figlio Philip, guardiano in un museo) appare poco incisivo e non del tutto essenziale, se non come occasionale interlocutore di Raffi (e il lungo interrogatorio tra i due all'aeroporto, specie nella prima parte, non è molto verosimile, a tratti pare interminabile). Alcuni momenti sono molto belli, per esempio, il confronto dialettico tra Raffi e Ali, attore che interpreta nel film che si sta girando uno spietato generale turco e nutre dei forti dubbi sul fatto che l'eccidio sia veramente accaduto, ma l'importanza di questo film sta soprattutto nel coraggio di riportare alla luce un'infamante tragedia che le autorità turche ancora pervicacemente negano. Anche se poi Egoyan non vuole tanto parlare del genocidio in sé, quanto dei devastanti effetti che lo stesso ha avuto sui sopravvissuti e sulle successive generazioni (ed è questo l'elemento più appassionante e convincente del suo sofferto film). L'invito di Atom è di evitare di assumere l'atteggiamento superficiale e anche un po’ arrogante di Ali che invita Raffi a lasciarsi alle spalle "la storia e i vecchi rancori" per guardare avanti, dal momento che "il Canada è un paese giovane" per cui è doveroso voltare pagina a prescindere da quello che è veramente successo. Non c'è bisogno di aprire altre ferite o di infilare nuovamente il coltello nella piaga, quello che è stato è stato sembra dire Ali. Questo però è un modo molto facile e squallido di lavarsi la coscienza, un bieco declinare ogni responsabilità, al pari di Hitler che, per convincere i suoi generali che il suo piano non poteva suscitare obiezioni affermò: "Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli armeni?" (a onor del vero, non si ha l'effettiva certezza che il führer abbia mai fatto queste affermazioni). Forse il senso profondo della imperfetta ma necessaria e preziosa operazione di Atom sta nelle parole del regista Edward Saroyan (a cui dà volto l'intenso Charles Aznavour che nel film ha lo stesso nome del personaggio interpretato per Truffaut in "Tirate sul pianista"). Rivolgendosi a Raffi, Saroyan, quasi rassegnato afferma: "Ragazzo mio sai cosa provoca ancora oggi tutto questo dolore? Non è avere perso delle persone care o la nostra terra. E' la consapevolezza di potere essere odiati...così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto? E con che coraggio insiste nel negare il suo odio? Finendo così per farci ancora più male!" E' questo il dolore profondamente radicato che Atom Egoyan (e con lui certamente molti armeni) non riesce a capire né tanto meno a superare. Con il suo film ci ha provato: fosse anche solo per questo "Ararat" diventa una testimonianza importante, significativa e coraggiosa, perché, nonostante la perdita della terra e di tante vite umane, almeno ci sia ancora soprattutto "la possibilità di ricordare". Vincitore di 5 Genie Awards, gli Oscar canadesi (film, costumi, musiche di Michael Danna, migliore attrice protagonista Arsinée Khanjian, migliore attore non protagonista Elias Koteas), ma nominations anche per scenografie, sceneggiatura e per i due bravi protagonisti maschili (Christopher Plummer e David Alpay). In Concorso al Festival di Cannes.
Voto:7

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