Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Non dev’essere facile per un ebreo polacco che da bambino ha attraversato le persecuzioni naziste, il ghetto di Cracovia, i bombardamenti, le deportazioni di massa, la perdita di familiari e amici, e la paura, la solitudine, il randagismo, affrontare con lucidità una storia di Olocausto. Forse è per questo che Roman Polanski rifiutò l’offerta di Spielberg di dirigere “Schindler’s List” e che è arrivato quasi a settant’anni prima di imprimere sulla pellicola il suo Olocausto: la storia privata, molto simile alla sua anche se il protagonista è un adulto, di un ebreo fuggiasco che, solo, sopravvive nella Varsavia occupata dai nazisti. “Il pianista” non è il “film di una vita” (sulle sue paure, ossessioni e buchi neri Polanski ha costruito tutto il suo personalissimo lavoro d’autore), e proprio per questo riesce a mantenere un equilibrio straordinario tra vicenda privata e tragedia collettiva, a raccontarci tutto senza mai perdere la soggettiva del suo protagonista, a non cadere mai nell’autocommiserazione o nell’autocompiacimento. Ha un’ampiezza di respiro e una finezza di tessitura che lo consegnano immediatamente al cinema classico, quel cinema capace di travolgere con la sua emozione e la sua intensità senza mai abbandonarsi alla bellezza fine a se stessa, alla gratuità delle immagini. Nel “Pianista” tutta la scansione narrativa conduce in una direzione precisa: si va dalla Storia all’incubo. La Storia esibisce il suo volto peggiore nella prima parte, e Polanski ne riprende il crescendo di incredulità, incertezza, collaborazionismo, disperazione; il suo occhio coglie, spesso a distanza, attimi di orrore (solo a uno si avvicina davvero: il bambino infilato nel buco del muro che separa il ghetto dalla città) e figurine surreali di un’umanità che nonostante tutto vuole sopravvivere. Solo raramente parte un movimento di macchina di ampio respiro, a restituirci la dimensione, tremenda, dell’evento (il ponte sopra la strada che attraversa il ghetto, le valige degli ebrei abbandonate nella strada, il dolly che accompagna Wladyslaw oltre il muro e ci mostra Varsavia distrutta). L’incubo, sempre più solitario e orrifico, comincia nel momento in cui il protagonista chiude dietro di sé la botola della pedana del caffè. Là, comincia il viaggio di un nuovo inquilino del terzo piano, braccato, spiato, tradito, in un inferno personale, dove neppure lo scorrere del tempo conta più. La seconda parte del film è bellissima e sconvolgente; ma la prima serve a farci arrivare sin là con la consapevolezza che tutto questo è accaduto davvero.
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