Regia di Ken Loach vedi scheda film
Uno dei migliori Loach, premio per la sceneggiatura a Cannes 2002
Lo slang dei quartieri portuali di Glasgow costringe ai sottotitoli anche gli spettatori di lingua inglese, un modo come un altro per segnare la frattura fra le classi di un’Inghilterra thatcheriana che ha ridotto in miseria gran parte del suo popolo.
Girato nel 2002, Sweet sixteen fotografa una fetta di società piegata negli anni precedenti dalla chiusura dei cantieri navali lungo il fiume Clyde nella Scozia occidentale.
Spaccio di sigarette e droga diventano l’alternativa necessaria, l’innocenza di sedicenni come Liam trova un varco solo attraverso la violenza per potersi affrancare.
In quartieri segnati da disoccupazione e degrado ambientale, il processo di formazione di Liam segue strade classiche : padre ignoto, madre in galera per conto del compagno spacciatore, una sorella, Chantelle, madre single del piccolo Calum, amorevole e protettiva col fratello, un nonno, avanzo di galera, che lo sbatte fuori di casa quando si rifiuta di portare droga alla madre che la spaccia alle compagne di detenzione, botte da orbi se non obbedisce.
Fratello e sorella sono di altra pasta, lottano per tenere la loro vita fuori da quel pantano, cercano una possibilità improbabile di felicità, ma saranno sconfitti.
Scenari di ordinaria miseria, economica e morale, dai film di Loach non ci aspettiamo altro, ogni angolo di una società in stato avanzato di putrefazione è stato o sarà esplorato negli anni a venire con il fido Laverty, sceneggiatore che per questo film fu premiato a Cannes.
“ Quello che mi ha colpito - diceva Laverty, avvocato con lunga esperienza nei servizi sociali in Sud America - è stato che, per quanto caotica fosse la casa di famiglia, la maggior parte era ancora determinata a entrare in contatto con la madre. C'è qualcosa di estremamente concentrato nell'adolescenza. C'è un'energia speciale che può essere esilarante o esplosiva.
La fragilità e spesso un coraggio sfrenato, anche se mal riposti, possono stare facilmente fianco a fianco. Volevamo provare a catturare alcune di queste qualità nella nostra storia”.
E la rifondazione di una famiglia con cui dare identità e calore alla sua vita sbandata è il sogno impossibile di Liam, l’esordiente Martin Compton, ottimo interprete di questo ragazzo quasi sedicenne dal viso pulito, bersaglio di una violenza sorda, cieca, indotta da piaghe sociali ben precise per cui giovinezza e innocenza sono intralci di cui sbarazzarsi.
Ora con sguardo divertito ( Il mio amico Eric, Jimmy, un angelo telecomandato. ) ora con partecipazione commossa quando c’è poco da ridere, Loach ci racconta storie vere, mette al centro diseredati in lotta di sopravvivenza nel carcere della vita, li segue come campioni di un’umanità tradita, umiliata e offesa, ma sempre in dignitosa ritirata, nessun sospetto di auto commiserazione. Sullo sfondo, sempre, le contraddizioni e l’ingiustizia sociale di un Paese falso modello di democrazia, le sue profonde divisioni di classe, la condanna ad essere poveri inflitta a gran parte del suo popolo.
Liam è un adolescente impulsivo e fragile, inquieto e autonomo, strafottente con i duri e dolcissimo col piccolo Calum e con la madre che vorrebbe di nuovo in casa per una famiglia da ricostruire.
Un prefabbricato, poco più che una roulotte dove stare con lei tra poco libera, riuscirà a comprarlo spacciando droga rubata al nonno.
Liam vuole una vita onesta ma è solo un sogno, dal vuoto della miseria si può sprofondare ancora più in basso.
E quando non resta altro Liam si allontana con le mani in tasca lungo il greto ciottoloso di fronte al mare. Non sa dove si trova, tutto gli è franato intorno, come Antoine di Truffaut cammina verso un domani senza promesse né progetti.
Ripartirà per un nuovo inizio? Finirà in carcere per quella coltellata al patrigno?
È il giorno del suo sedicesimo compleanno e aveva messo giacca e cravatta per aspettare la mamma fuori dal carcere.
Ora è di nuovo solo, sweet sixteen!
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