C'è del genio in Paul Thomas Anderson. Indubbiamente. Altrimenti non sarebbe uno dei pochi cineasti hollywoodiani di assoluto rilievo dell'ultimo ventennio."Ubriaco d'amore" passa per il suo film "minore": ebbene, avercene di minori di questo livello! E' semplicemente una delle commedie più inventive e sorprendenti che il cinema USA sia stato in grado di produrre negli ultimi tempi. Batte i Coen sul loro stesso terreno, in quanto a trovate surreali e verve grottesca. Non solo: ha il pregio di essere, in fondo, sia pur alla sua maniera eterodossa, una "sentimental comedy" (o "rom com" che dir si voglia), con tanto di happy ending e un substrato di tenerezza che scaturisce, fra una psicosi e l'altra, dai suoi due protagonisti-outsider. "Ubriaco d'amore" rifiuta il cinismo e la dimensione gratuitamente ludica di tanto cinema post-moderno, mantenendone giusto lo spirito ironico e divertito, ma evidenziando e valorizzando quel residuo umanista che tanti contemporanei tendono a soffocare. In questo, nel cine-percorso andersoniano, è un film non così lontano dal recente "Vizio di forma", anch'esso conteso fra la decantazione sarcastica e un sentimento duro a morire.
"Ubriaco d'amore" ha una trama semplice semplice: white-collar sulla trentina abbondante, timidissimo, con improvvisi raptus violenti e una famiglia di sorelle odiosissime, si accolla una bella spasimante sensibile e divorziata. A condire la love story, un improbabile controcanto noir, con il compianto P.S. Hoffman nei panni del cattivo: una specie di strozzino che lucra sui segaioli che intasano le hot-line (come non vederci un che di pynchoniano nell'assurdismo di questa ed altre idee?). Uno spunto che un qualsiasi altro sceneggiatore/regista avrebbe ricondotto alle secche del cinemino edificante per coppiette diventa, come sempre nello sguardo anarcoide di PTA, un'occasione per un altro esuberante excursus nelle manie e nei sogni perversi dell'homo americanus. "Ubriaco d'amore" è un saggio su come aggirare il rischio di cadere nella banalità, su come girare in maniera brillante ed originale quella che altrimenti sarebbe una sequenza scontata: e il tutto mantenendo la massima espressività, l'adesione registica al senso pregante del testo, evitando quindi il virtuosismo sterile.
Si faccia caso a come PTA decide di rappresentare, filmicamente, lo stato di "disadattamento" del protagonista: una musica tambureggiante (o estatica, a seconda dell'umore) sovrasta i dialoghi, rendendoli talvolta quasi inintelligibili, mentre gli eventi più strampalati sconvolgono la routine dell'ufficio. Straordinarie poi alcune sequenze che vivono di luce propria: il lungo piano-sequenza della telefonata di Barry alla hot line, con sfocature e un senso di ansiogena claustrofobia; lo zoom della mdp sull'etichetta del budino, da cui Barry intuisce un clamoroso affare; la telefonata da una cabina telefonica alle Hawaii; tutti gli incontri fra Barry e Lena. Si aggiunga una geniale gestione dello spazio, con sciabolate in profondità della mdp degne di Welles, il preziosismo di siparietti lisergici, una perfetta (per quanto "allentata") gestione dei tempi comici e una gustosa definizione dei personaggi secondari (come la sorella petulante).
La statura dell'Anderson regista si nota anche da dettagli, che parrebbero insignificanti, ma che invece fanno capire cosa significa "fare cinema", ossia lavorare sul linguaggio dell'immagine-tempo: la sagoma stolida di Barry arretra impaurita e in controluce di fronte alla pianola appena "salvata" dalla strada; noi la vediamo di spalle, ingombrare l'inquadratura col suo testone e il suo busto squadrato. C'è tutta la spassosa ma tragica inettitudine del protagonista in quell'immagine, la sua fragilità caratteriale, le sue fisime, in cui lo spettatore può riconoscersi, nonostante la stravaganza della vicenda. A rendere questo gioiellino di film ancora più splendente è una affiatata coppia di interpreti, dove il primato di un inedito, empatico, quasi commovente Adam Sandler è conteso dall'irresistibile ambiguità del volto di una meravigliosa Emily Watson, le cui capacità recitative avrebbero meritato ben altra carriera.
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