Regia di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne vedi scheda film
In un istituto per il recupero dei ragazzini usciti dal riformatorio, l’educatore Olivier (Olivier Gourmet) accoglie con inquietudine un nuovo allievo. È Francis (Morgan Marinne), sedicenne pallido e assorto assegnato alla falegnameria. Olivier lo spia, stringe con lui un rapporto di vicinanza, poi parla alla ex moglie (Isabella Soupart) di questa complessa relazione e tutto diventa drammaticamente chiaro. Francis è dentro per aver ucciso, durante un furto, il bambino di Olivier. Spiace svelare al lettore che ancora non ha visto il film questo colpo di scena. Ma è una rivelazione che nulla toglie alla tensione incredibile e sapiente del racconto, e nello stesso tempo ci consente di ragionare sul cuore morale della vicenda. Perché Olivier, forse, quel ragazzino lo vorrebbe ammazzare. È umano, e non esiste (per ora) il rischio di nessun pre-cog che condanni un sentimento di vendetta così autentico e devastante. La bellezza di “Il figlio” (doveva chiamarsi “Il padre”: l’indecisione di Jean-Pierre e Luc Dardenne sul titolo ci sembra assai significativa), sta nel non ostentare mai le intenzioni del protagonista. Nel (ri)costruire le conseguenze di una tragedia e le aspettative di una vendetta tra i silenzi, le attese, le pause, la sofferenza implosa. Con una regia che interpreta ma nello stesso tempo resta pudica (macchina da presa a mano ma meno radicale che in “Rosetta”), i Dardenne mettono dunque in scena un racconto morale dove si confrontano, a livello minimale, argomenti di spessore assoluto. Il Male (può avere la faccia di un ragazzino di sedici anni?), la redenzione, la colpa, l’impossibilità di elaborare un lutto (anche qui, un figlio e la sua “stanza”) e persino una sorta di trascendenza schraderiana (e quindi, bressoniana), nonostante lo sguardo sulla storia di Olivier e Francis, nel suo rigore, sia laicissimo. Ma torniamo al “padre”: la cosa eccezionale del film è il suo punto di partenza, che per stessa ammissione dei Dardenne non è un soggetto narrativamente compiuto e neppure un personaggio. È l’attore stesso che lo interpreta: Olivier Gourmet (già splendido in “Sulle mie labbra”, nel ruolo del gangster proprietario della discoteca). «La sua mole, la sua nuca, il suo volto, i suoi occhi persi dietro gli occhiali». Il cinema si riappropria dei corpi, “del” corpo, e attraverso un procedimento di sottrazione scava nei comportamenti fino a denudare l’anima. “Il figlio” è un’opera che strazia e riconcilia finalmente con la Settima Arte.
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