Regia di Nicole Garcia vedi scheda film
L’avversaire è un film francese tratto da un libro di Emmanuel Carrère che si ispira alla storia vera di un killer appartenente alla rispettabile borghesia, il finto medico Jean-Claude Romand, che per 18 anni ha svolto alla perfezione la sua parte, calandosi con incredibile sensibilità nel ruolo di padre premuroso, quasi materno, di marito sensibile, di figlio affettuoso e accudente, di amico sincero (e in verità era tutte queste cose) per poi, nel 1993, esplodere improvvisamente trucidando moglie, figli e genitori.
La storia che in quegli anni ha colpito profondamente la coscienza dei francesi e ha dominato le pagine di cronaca nera per un lungo periodo sollevando sui giornali e sui media numerosi dibattiti sociologici, psicologici e psichiatrici, ha ispirato un libro a Emmanuel Carrère, che per scrivere il suo libro ha intrattenuto a lungo una intensa relazione epistolare con l’ergastolano. (Carrère, per inciso, è un importante scrittore francese, autore - fra l’altro - di un noto reportage sui migranti a Calais e delle biografie del dissidente russo Limonov e dell’autore di fantascienza Philip K. Dick (Io sono vivo, voi siete morti, del 1993).
La fama del terribile fatto di cronaca e il successo del libro di Carrère hanno ispirato un primo film a Laurent Cantet (A tempo pieno, del 2001) e questo secondo film del 2002 della regista algerina Nicole Garcia.
La storia raccapricciante è molto semplice da raccontare.
Il protagonista, Jean-Marc Faure (interpretato dal convincente Daniel Auteuil), vive la sua vita di medico affermato e di ricercatore distinto; è (non solo appare, come si è detto) un uomo dolce, un padre affettuoso, quasi materno, un marito pieno di attenzioni, un figlio amabile coi vecchi genitori; ha un giro di amici simpatici che lo cercano e lo stimano; abita in una casa dignitosa; i suoi figli frequentano buone scuole; intrattiene ottime relazioni sociali.
Nasconde però a tutti un segreto: non si è mai laureato, non è medico e non fa il ricercatore presso l’OMS, la prestigiosa Organizzazione Mondiale della Sanità di Ginevra. A 18 anni ha infatti interrotto gli studi e ha iniziato a fingere di studiare e dare esami, poi ha finto di laurearsi, poi di trovare un buon lavoro, di fare carriera. Continuando nella sua simulazione, si è accasato, ha fatto figli, ha condotto un’esistenza routinaria impeccabile e appagante.
La sua biografia è stata una lunga costruzione perfettamente congegnata, una messinscena impeccabile organizzata e recitata alla perfezione e con estrema immedesimazione.
Nel corso degli anni la sua finzione si è mescolata con la realtà, si è indistricabilmente intrecciata con la quotidianità ed è diventata come una trappola: ogni giorno, dopo la colazione (roba da Mulino Bianco), il povero Jean-Marc esce di casa fingendo di andare a lavorare ma passa la giornata vagando in auto per far venir sera, vivendo chiuso nella sua automobile in parcheggi affollati; spesso si aggira attorno ai luoghi che si era precluso con la sua finzione (la mensa dell’OMS o la biblioteca) soltanto per consolidare l’alibi o per assaporare illusioni perse; ogni tanto finge perfino trasferte di lavoro, missioni o convegni di categoria, ma passa intere giornate e nottate in alberghi vicini all’aeroporto. In una claustrofobica fuga dalla realtà.
Per mantenersi col decoro adeguato al suo lavoro e per provvedere a tutte le necessità della casa e della famiglia, per ostentare il benessere e per conservare il tenore di vita che tutti si aspettano da lui, truffa chiunque nella sua cerchia di parenti e amici millantando abilità finanziarie, dichiarandosi esperto di new-economy e di investimenti.
Ad un certo punto però l’impalcatura scricchiola; la banale bugia dei suoi vent’anni che lo aveva incanalato in una serie di imposture cresciute come incrostazioni, subisce un’incrinatura e poi frana rovinosamente per piombare e travolgere come una valanga devastando tutto.
Ed ecco che la sua inettitudine diventa furia fredda.
La regista impone allo svilupparsi della trama un andamento volutamente lento, giocato su flashback impercettibili, con atmosfere gelide, colori lividi (quasi alla maniera di Lynch), con montaggio scarno, inerte e dispersivo.
E nel crudo finale evita compiacimenti splatter, con grande e sapiente coerenza.
Tutto questo rende il film frammentario e po’ faticoso.
Ma è proprio per questa scarna essenzialità che risulta efficace nel rendere la disperazione più intensa, annichilente, vuota, senza passato e futuro.
Il film ha due grandissimi pregi: uno è dato dall’agghiacciante storia in sé (il sapere che è una storia vera dissesta, sconvolge e inebetisce); l’altra è la distaccata interpretazione del gelido Auteuil, dolce e spietato, apatico e determinato, triste vittima e implacabile carnefice; disadattato, desolante, tormentato dal feroce male di vivere, dal rifiuto della realtà, dall’indifferenza nichilista, dall’insignificanza del tutto, dalla fredda estraneità quasi camusiana (L’étranger, 1942).
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