Regia di Erik Gandini vedi scheda film
Un ottimo documentario su un tema assolutamente sottovalutato come quello del lavoro.
Gandini ha il merito di mostrare, in modo mai pesante, i tanti punti di vista che si possono nutrire sull’argomento. Senza mai indulgere nell’apprezzamento eccessivo dell’uno o nella demonizzazione dell’altro punto di vista; nonostante sia chiaro quanto mostri, con onestà e serietà, anche i limiti di certe impostazioni.
Questa apparente neutralità è un pregio della veloce pellicola, cui se ne aggiungono altri: la colonna sonora, lodevole; la fotografia, spesso eccellente; il montaggio, incalzante.
C’è veramente di tutto su un tema che è fondamentale, sempre lo è stato e sempre lo sarà. Innanzitutto i maggiori imputati appaiono i campioni del capitalismo, come qui, fra gli altri, Corea de Sud e Stati Uniti.
Gli americani, perché molti di loro hanno rinunciato a tantissime ferie; e poi non potrebbero accettare l’idea di stare senza lavorare più di due settimane. Una droga, a quanto pare (ben spiegata, di ciò, è la parziale genesi che deriva dal calvinismo…). I sud coreani per il tasso di malattia mentale che è stato loro indotto, sotto il profilo educativo, ben compresso dal potere politico filoamericano, che impedisce a quasi tutti loro di credere di vivere senza lavorare.
Notevole il richiamo alla felicità; chi lavora troppo ammette di non sapere bene cosa sia la felicità. Più che altro, le persone che hanno avuto a che fare con individui di questo tipo (come il figlio depresso che parla dei genitori deprimenti, e tristi a loro volta) asseriscono che tali individui non si sono mai potuti fare domande attorno alla felicità.
Ottima è la sottolineatura critica sulla concezione dell’etica del lavoro, in senso capitalistico: che non è mai valorizzazione dell’etica NEL lavoro, come dovrebbe essere; ma è sempre e solo valorizzazione del servilismo, alla fin della fiera. Ovvero della morale che un servo deve avere: tutti i doveri, sacrosanti, del dipendente (puntualità, affidabilità); ma mancano, insomma, i diritti di cui qualunque lavoratore deve godere (senso critico; garanzie contrattuali, sindacali…).
Poiché il documentario non è semplicistico, si mostrano anche tutte le critiche possibili alle forme di ozio, non solo a quelle del lavoro eccessivo indotto, politicamente e/o culturalmente e quindi educativamente.
Si espone la riflessione sul reddito di cittadinanza, di cui una certa forma sembra inevitabile se la tecnologa continua a fare la tecnologia, ovvero se continua a togliere posti di lavoro. Un reddito di base è inevitabile con il galoppare, inevitabile dell’intelligenza artificiale, fra le altre cose. Ma si mostrano anche i difetti di un eccessivo ricorso allo stipendio pubblico per chi non lavora. Notevole, in tal senso, è l’esempio del Kuwait, dove i disoccupati sono assunti dallo stato per non fare nulla. Ciò è possibile nei rarissimi casi, lì con il petrolio, in cui uno stato ed una società possono permettersi di pagare la forza lavoro che non riescono ad assorbire; infatti, circolano tanti soldi! Ma interessantissimo è anche il risvolto: per fare ciò, nelle società più ricche i lavori più umili vengono devoluti a immigrati. I quali, per farli, vengono considerati come degli animali, non come degli esseri umani. Illuminante esempio dello sfruttamento dell’immigrazione, e realistico.
Inoltre, interessante è il punto di vista dei capitalisti sul reddito minimo: un privilegio ingiustificato perché immeritato. Ma questo loro parere stride con quest’altra, storicamente chiara, considerazione: che quasi sempre la disoccupazione è stata resa necessaria dallo sfruttamento che, politicamente, la classe dirigente, formata da pochissimi capitalisti, ha avuto interesse a creare (in termini di ore eccessive da lavorare per i sottoposti…).
Ottima è pure la riflessione sui Neet: come noto, chi non studia, né lavora, né accetta di fare formazione al fine di entrare nel mercato del lavoro. Gli italiani sono al vertice in Europa, di tale triste categoria; ma anche perché in Italia il lavoro nero galoppa alla grande (la mancanza di tale dato di fatto è uno dei nei del film). Con il suo codazzo, purtroppo, di conseguenze tristi, spesso criminali e perfino mortali.
Ma il maggior merito, invece, di questo esimio lavoro sta forse nel proporre, e implicitamente imporre, riflessioni su tempo libero e felicità. Che sono, giustamente, questioni di primaria importanza per la vita di chiunque. Cosa farei se avessi molto tempo libero (il che la tecnologia mette a disposizione, come tutti gli esperti della materia sanno da oltre cento anni, ormai)? Ma ciò implica che, se c’è meno lavoro, esistono politiche sociali che permettono la sopravvivenza a tutti, anche se la tecnologia toglie lavoro a molti, e sempre di più?
Ma soprattutto: esiste una consapevolezza di ciò che sia la felicità? Di cosa essa implichi? Di quale genere di lavoro la felicità richieda, in termini di quantità e qualità, e in termini quindi di richieste allo stato attraverso la politica? Di quale lavoro impedisca ragionevolmente la felicità, e vi si opponga?
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