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After Work

Regia di Erik Gandini vedi scheda film

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La recensione su After Work

di yume
8 stelle

Una bomba nello stagno, dalle analisi di Paulsen alle immmagini di Gandini commentate da Noam Chomsky , sguardo sul presente e futuro distopico c'inchiodano come farfalle nella vertrina dell'entomologo

locandina

After Work (2023): locandina

Con After work di Erik Gandini, bergamasco naturalizzato svedese, le analisi di Erik Paulsen che lo ispirano non vogliono dare risposte, guardano l’esistente con l’occhio verso un futuro prossimo venturo. Quello di cui parla Gandini è un tempo preparato come ogni tempo da quello che l’ha preceduto, ma sui cui segnali la sindrome dello struzzo in cui l’umanità si distingue preferisce sorvolare.

L’automazione e l’intelligenza artificiale spiazzeranno l’uomo, questo è certo, lo sta facendo e non vogliamo prenderne atto, e allora diamo un’occhiata in giro.

I modelli sono presi dagli States e dalla  Corea del Sud, Kuwait e Italia. Lo screening è ampio e credibile, sui paesi del terzo e quarto mondo inutile soffermarsi, il primo mondo ha tolto loro tutto quello che poteva, parlare di lavoro è assurdo, piuttosto vengano a fare gli schiavi di cui ci sarà sempre bisogno.

Dunque, guardando alla classe media il profilo è sconfortante, un paio di esempi di super-ricchi poco o molto indaffarati non fanno testo.

Si parte dalla Corea del Sud, paese un tempo povero oggi ricchissimo grazie alla rivoluzione informatica.

La vita media del lavoratore è di sedici ore, le altre servono per mangiare, dormire, fare la doccia e coprire le distanze per andare al lavoro.

Contromisure? Si stacca la corrente e si costringe tutti a smettere all’ora stabilita, ce lo dice sorridendo soddisfatta la Ministra del lavoro, senza rendersi conto che sembra una cosa da bambini disubbidienti.

Ma tant’è. Cancro allo stomaco e sindrome cervicale sono le malattie più diffuse, il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo, ma il lavoro è diventato un motivo di orgoglio e guai non averlo.

In America non va meglio, le ferie neppure si fanno o solo al minimo, l’americano medio si realizza solo col lavoro, e lì subentra l’”etica del lavoro”  di calviniana memoria di cui parla la filosofa americana Elizabeth S. Anderson. Paura della dannazione, dice, lavorare molto garantisce la salvezza.

Assurdo? Tesi troppo estrema? Non proprio, se la morte si sconta vivendo, in America da scontare c’è la vita, e il lavoro serve allo scopo.

In Kuwait il petrolio ha fatto più danni della peste nera, anche se continuano a chiamarlo oro nero.

Paese troppo ricco per aver bisogno che tutti lavorino e producano, interi piani sotterranei di grattacieli altissimi accolgono, si fa per dire, schiere di lautamente stipendiati che occupano scrivanie vuote e passano il tempo a leggere qualche libro che portano da casa o fare videogiochi sul cellulare.

E nella vecchia Europa, in Italia in particolare? Noi siamo diversi, lo sappiamo, il tempo libero ce lo lasciamo, lo curiamo, ma, attenzione, stiamo invecchiando e la massa dei giovani non è più quello che eravamo noi, si stanno globalizzando col resto del mondo.  Qui non lavorano perché il lavoro non c’è o è mal distribuito, e dunque il loro non è tempo libero. E’ un tempo passato a non far niente, a non immaginare neppure che si possano fare cose.

Basta vedere, in finale, la reazione a una domanda sparata come un siluro che atterra ogni razionale possibilità di risposta a quattro giovani esemplari:

“Cosa faresti se potessi ricevere ogni mese uno stipendio senza lavorare?”

“Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare” no, per rispondere così ci vorrebbe un poeta come Campana, qui c’è solo silenzio e smarrimento.

Il ragazzo coreano abbassa gli occhi, quasi si vergogna di una simile domanda, l’impiegata di Amazon entra in confusione, le hanno detto che potrebbe mangiare guidando e fare pipì in una bottiglia, altro che non lavorare! La kuwaitiana di cui si vedono solo gli occhi sotto una specie di sudario nero di cui solo loro sanno il nome (burka no, lì non si vedono neanche gli occhi) comunica smarrimento, sbarra i due occhioni neri come se avesse visto Belzebù.

Erik Gandini

After Work (2023): Erik Gandini

Documentario-inchiesta di enorme valore, che solo qualche decennio fa avremmo definito di fantascienza, oggi mostra una realtà in bilico tra presente e futuro, nel senso che prefigura partendo dall’oggi come sarà un futuro anche troppo prevedibile.

Senza passare per laudatores temporis acti, bisogna dire che certi problemi bisogna porseli e Gandini lo fa con estrema eleganza, nessun tono apocalittico, anzi spesso la realtà è così assurda da diventare umoristica.

Il titolo, Dopo il lavoro, pone le basi: il lavoro dell’uomo, dal paleolitico in giù, ha dato al pianeta Terra la forma che ha, ha conferito senso alla sua permanenza mediamente sempre più lunga, lo ha fatto sentire parte di una natura di cui si è sempre orgogliosamente dichiarato la specie migliore.

Oggi siamo al capolinea, bisogna pensare al dopo-lavoro, ma non come stacco, pausa, riposo gratificante, no, dopo-lavoro come annullamento del bisogno di lavorare, che non è cosa indolore.

Schiere di pensionati incapaci di risorse che non siano panchine al parco, giovani che il lavoro non ce l’hanno e dunque come pensare al dopo? Salariati sottopagati che di libertà neanche il miraggio.

Tutti accomunati dal reddito minimo universale?

Tesi estrema ma non troppo se i segnali che Gandini mostra sulla scia delle analisi di Paulsen sono quelli.

Lavoro meccanizzato e intelligenza artificiale non sono una novità, si pensava da tempo allo spazio lavorativo dell’uomo sempre più ristretto, ma Paulsen va oltre, s’interroga sul mondo in cui viviamo e si chiede come affronteremo il futuro.

Diventeremo di colpo creativi? Impareremo a guardare le stelle? O solo una grande, mortale noia coprirà con un nero sudario un’umanità che ha perso il primato in natura duramente conquistato da secoli?

Sfruttatori e sfruttati, nullafacenti e schiavi saranno finalmente accomunati? Il reddito minimo universale garantirà la sopravvivenza a tutti, non sarà più il lavoro, per quanto faticoso e alienante, la nostra confort zone?

Saremo capaci di sopportare tutto questo?

La voce di Noam Chomsky commenta lo scorrere del film, e del suo decalogo per il controllo sociale si pensa al settimo punto:

Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile”.

 

E’ esattamente ciò che accade, è accaduto e continuerà ad accadere.

E come vogliamo che l’umanità impieghi il tempo libero dal lavoro se il tempo libero non è stato costruito, cercato, amato? Se il pubblico è stato mantenuto nell’ignoranza e nella mediocrità?

Nel 2015 Paulsen pubblicò Empty Labor, dove intitolava il quinto capitolo: “Come avere successo sul lavoro senza provarci davvero”.

Era l’introduzione al concetto di “lavoro vuoto”, per parlare di persone che dedicano più della metà del loro tempo di lavoro ad attività private.

In After work lo scenario è globale e un tantino più sconvolgente, ci toccherà rimpiangere quei modi un po’ truffaldini di rosicchiare tempo libero al lavoro.

E così, se prima era il lavoro a farci soffrire, domani sarà il tempo libero.

Inevitabile tornare al grande marchigiano: “Se la vita è sventura/ perché da noi si dura?

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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