Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Kedma è il nome di una nave, quella che nel maggio del 1948 trasporta un gruppo di sopravvissuti dell’Olocausto provenienti da tutta Europa verso le coste della Palestina. Una “carretta del mare” del secolo scorso, attesa sulla spiaggia dai soldati inglesi che vogliono impedire lo sbarco e dai combattenti dell’esercito ebreo che vogliono invece favorirlo. Comincia sulla Kedma, con un lungo piano sequenza che dalla stiva sale e si allarga sul ponte pieno di emigranti, il nuovo film di Amos Gitai (vedi servizio a pag 96), che, dopo “Kippur” e “Eden”, continua la personale ricostruzione delle radici dell’odio, della guerra, del malessere che attanaglia il popolo d’Israele. Gitai non è un autore integralista né convenzionale e costruisce il suo apologo con taglio volutamente astratto, in funzione delle due lunghe tirate conclusive, quella del palestinese Yussef, che con la sua famiglia sta scappando davanti agli ebrei, e quella dell’ebreo Yanoush, che invece sta scappando davanti agli inglesi. Due monologhi speculari che riassumono la violenza ossessiva che continua a insanguinare la storia dei due popoli. L’intento dell’autore è lucido; peccato che la geometria dell’assunto renda l’impianto narrativo un po’ meccanico. “Kedma” è un film che si proclama “d’autore” fin dalla prima scena, che esibisce la propria metafora e il proprio messaggio, a scapito del calore che circolava in “Kippur” e “Kadosh”. Un esercizio onorevole.
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