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Il caso Katharina Blum

Regia di Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il caso Katharina Blum

di (spopola) 1726792
8 stelle

“Mercoledì 20 febbraio 1974,  vigilia di carnevale, Katharina Blum, 27 anni, cameriera presso una famiglia della buona borghesia di Colonia, esce di casa per recarsi a una festa da ballo. Quattro giorni dopo suona alla porta del commissario Moeding, “intento a travestirsi da sceicco per ragioni private ma di servizio”, e gli confessa di aver ucciso a colpi di pistola il giornalista Werner Tötges.

Che cosa nasconde un gesto tanto disperato? Nei pochi giorni tra la festa e il delitto, Katharina ha fatto l’esperienza dell’ingiustizia. Colpevole di aver aiutato a fuggire il giovane ribelle che ama, si è ritrovata al centro di una campagna giornalistica montata da uno di quei fogli scandalistici a grande tiratura, che assecondano i gusti più retrivi dei suoi lettori.

Tötges, che l’ha intervistata più volte, è appunto il tipico e cinico esponente di questa categoria di manipolatori di notizie (di cui lo stesso Böll ha sperimentato di persona le mistificazioni fra il 1971 e il 1972, quando i giornali Sprinter scatenarono una vera caccia alle streghe contro il gruppo Baaden-Meinhof e le sinistre). Come può una semplice ragazza affrontare i “mass-media”? La battaglia è perduta sin dall’inizio. Il gesto omicida di Katharina va interpretato come vendetta assurda, o come legittima difesa?

E’ questo il tema cui Böll, Premio Nobel 1972, ha dedicato il suo più recente romanzo: un “j’accuse” vibrante di ragioni civili, eppure psicologicamente assai sfumato; costruito come un rapporto, al pari di “Foto di gruppo”, ricco di particolari concreti, e insieme ironico e graffiante.”

Queste le note riportate sulla quarta di copertina de L’onore perduto di Katharina Blum (ovvero: “Come può nascere  e dove può condurre la violenza”) di Heinrich Böll, pubblicato in Italia da Einaudi nella traduzione di Italo Alighiero Chiusano nel 1975, che è alla base del film che il regista Volker Schlöndorff realizzò quello stesso anno insieme a Margarethe von Trotta con la quale era sposato in quegli anni.

Nel passaggio dalla pagina allo schermo, il regista (e la sua equipe di collaboratori) ha opportunamente sostituito l’ironia pugnace di Böll con un andamento più cronachistico e lineare, per trasformare il tutto in un’opera politica di particolare rilevanza, o meglio in un dramma sociale dai toni realistici, perfettamente inserito nello stile e nelle filosofie dottrinali che rimandano direttamente alle enunciazioni e ai programmi dello Junger Deutscher Film, realizzando così un film appassionato e onesto, che provocò in patria (ma non solo lì) accese e prolungate polemiche (a mio avviso molto salutari): se nelle pagine del romanziere il fatto di cronaca è sottoposto al trattamento di uno stile letterario di sapore sapientemente avanguardistico che lo rende qualcosa di più di un semplice pamphlet ideologico, sullo schermo tutto si svolge invece in ordine cronologico, rispettando integralmente le regole del racconto all’americana, ma con una più diretta e coinvolgente – e a mio avviso efficacissima – partecipazione emotiva che si propaga allo spettatore.  Il controllo del ritmo narrativo è comunque assoluto: lo sguardo  attento e pungente imposto alla cinepresa, mantiene con rigore  il passo quasi “documentale” della cronaca,  senza mai cadere nella trappola del melodramma, o peggio cedere alla pericolosissima tentazione un po’ ricattatoria di utilizzare a sua volta un linguaggio analogo a quello che è il bersaglio primario della  critica messa in atto, quel  pompare cioè  ad arte  lo “scandalismo”  insito negli avvenimenti con forzature ed insinuazioni di ampia presa (ma di dubbia morale) che amplificano il consenso e garantiscono il ritorno “pilotato” del gradimento.

I fatti narrati (la storia della presa di coscienza di una ragazza piccolo-borghese e il conseguente atto d’accusa contro l’isteria dei media: nel caso specifico, l’influenza nefasta sull’opinione pubblica della stampa scandalistica che fa “opinione” negli anni caldi del terrorismo armato in Germania) sono concentrati in un lasso di tempo davvero molto ristretto (da un mercoledì a una domenica) ed è appunto del caso Baaden-Meinhof che si intende “indirettamente” parlare e fare implicito riferimento.

Opera dichiaratamente “politicizzata” e di forte impatto sociologico, dunque - aspra nei toni  e mai didascalica - che si affida ad una puntigliosa e attendibilissima ricostruzione di avvenimenti che potrebbero persino apparire  “grottescamente assurdi” nel tracciare il tragico ritratto di una donna qualunque costretta suo malgrado e all’improvviso, a misurarsi con l’incomprensibile: “Schlöndorff e la Trotta – ricorda puntualmente Alberto Cattini – fanno di Katharina un’eroina della responsabilità. E’ una cameriera con aspirazioni di integrazione sociale piccoloborghese e con visioni sentimentali di tipo fumettistico, non molto diverse da quelle della maggioranza femminile proletaria della sua generazione. (…) Questa donna, magnificamente interpretata da Angela  Winkler (la ricordiamo anche come ottima protagonista femminile di Scene di caccia in Bassa Baviera), attraverso la conoscenza diretta della paura, si emancipa dalla propria soggezione sociale fino a ribellarsi contro chi degrada la vita umana a valore di mercato”.

Realizzato in un clima di grande tensione (sia Böll che Schlöndorff subirono varie perquisizioni domiciliati per sospetta “attività sovversiva”) è un film che intende denunciare (dimostrandolo nei fatti) - proprio portando avanti la tesi che il “solidarismo” imposto dallo stato, sommato al “buonsenso” popolare e alle nevrosi causate ad arte è la principale arma del fascismo e della repressione - il potere nefasto nell’orientare l’opinione pubblica dei mezzi di comunicazione (i media come  fabbriche di terrorismo, insomma.)

 

Ritornando ai fatti, lo scrittore cattolico Heinrich Böll, nel clima fortemente arroventato dei primi anni ’70, di fronte a una campagna di stampa che incitava i cittadini a trasformarsi in veri e proprio “giustizieri della notte”, reagì scrivendo un articolo illuminato e coerente nel quale metteva in guardia dalle conseguenze nefaste di simili disastri diffamatori e invitava il popolo tedesco a non lasciarsi manipolare da certe campagne demagogiche, aggiungendo e ribadendo con forza che se erano giusti i processi contro certi gruppi rivoluzionari, era altrettanto doveroso che fossero celebrati rispettando tutti i sacrosanti diritti della difesa e solo nelle specifiche sedi istituzionali preposte,  che non erano certo quelle di un “giornalismo” a senso unico, poco “veritiero” e senza contraddittorio.

Dopo questa coraggiosa presa di posizione, lo scrittore tedesco nonostante il premio Nobel per la letteratura ricevuto solo poco tempo prima, si trasformò bruscamente per “quella stampa” (ma anche per una certa  parte abbastanza rilevante della politica), da acuto poeta delle rovinose cadute delle anime e da coscienza critica della nazione, a pericoloso estremista da mettere all’indice,  inviso ai più e boicottato su tutti i fronti: molte biblioteche tolsero dagli scaffali le sue opere e le vendite dei suoi libri ebbero un tracollo verticale, analogo a quello della sua popolarità.

Da questa dolorosa esperienza (ma anche dalla sincera preoccupazione per il destino democratico del proprio paese) nasce dunque L’onore perduto di Katharina Blum che interessò immediatamente il trentacinquenne Volker Schlöndorff che - dopo un interessante “apprendistato” fatto come assistente di Alain Resnais, Louis Malle e Jean-Pierre Melville e una attività di reporter televisivo  dall’Algeria e dal Vietnam svolta in prima persona - aveva già al suo attivo importanti opere come I turbamenti del giovane Törless da Musil, il brechtiano La ricchezza improvvisa della povera gente di Kombach e Fuoco di paglia (quest’ultimo però da vedere  solo nella versione originale per poterlo valutare esattamente, poiché l’edizione italiana oltre ad aver subito alcuni [in]comprensibili tagli, è stata anche appesantita  e deturpata da una traduzione dei dialoghi così scadente e approssimativa, da gridare davvero vendetta).  Schlöndorff riuscì così a mettere  in piedi quasi in simultanea, con la collaborazione della moglie (autrice insieme a lui anche della sceneggiatura), questa interessante – e per molti versi ancora attualissima – pellicola (basta vedere che cosa sta succedendo di altrettanto grave anche qui in Italia ad opera dei vari Belpietro, Feltri, Sallusti e Signorini, manipolatori ad “arte” – fatto ancor più terrificante  e anomalo - di notizie e fatti anche politici per rispondere ai “bisogni” e alle mire di un solo uomo al potere che intende spolpare l’osso fino in fondo, costi quel che costi).

L’opera letteraria (e politica) intrisa  di kafkiana ironia e ricca di intriganti flash-back, come già accennato sopra, è stata trasposta in immagini  con un più distaccato “codice” realistico, adattando insomma il contenuto a un più lineare linguaggio cinematografico e a una narrazione  cronologica e senza ellissi degli avvenimenti, svincolandolo  totalmente dagli artifici della “forma” per far arrivare meglio il messaggio (l’impegno morale a difesa delle libertà individuali) veicolato da Böll in maniera più “mediata” con la sua scrittura più “atemporale”  e nervosa, di straordinaria e coinvolgente presa.

E proprio da quel suo essere realisticamente diretto, il film trae forza e “ragione” di esistere anche “autonomamente” rispetto al romanzo, rendendo nella sostanza ancor più evidente che questo drammatico “j’accuse” non è rivolto soltanto verso la cosiddetta “grande stampa” (nel caso specifico soprattutto quella del “consumo popolare di massa”), ma anche verso la polizia e la magistratura. Una “trinità” del potere che opera(va) in una Germania apparentemente “liberale” ma che poi alla fine tale non lo era affatto (come sta a testimoniare proprio  la legge liberticida  promulgata in quegli anni  per difendersi dagli attacchi “rivoluzionari” spesso cruenti dei rivoltosi, praticamente identica  a quella varata dai nazisti nel 1933).  Sappiamo poi tutti come andò davvero a finire con la banda Baaden-Meinhof una volta incarcerati i responsabili, e non è certo un vanto o una bandiera da sventolare ciò che avvenne di terribilmente losco e nascosto dentro quel carcere (vedi anche l’interessante film di Uli Eder tratto dal libro di Stefan Aust) un altro motivo di riflessione sul perverso e anomalo agire delle istituzioni - mascherato e negato, persino difeso o occultato dal potere che ne istiga il lavoro  e ne difende senza vergogna gli esiti - attualissimo ancor oggi perché se qualcosa è cambiato, è stato sicuramente in peggio (ne sappiamo qualcosa anche noi qui in Italia).

 

Protagonista del film e del libro, è Katharina Blum con alle spalle un matrimonio fallito e di professione governante ad ore,  che vive una vita abbastanza solitaria e appartata.

A Colonia, una sera di Carnevale, conosce un giovane disertore della risorta “Wermacht” del quale si innamora e che finirà per ospitare per la notte nella sua abitazione.

Con il sopraggiungere dell’alba, avrà così inizio proprio da questa “casualità” di eventi, il suo inaspettato calvario: la polizia, messa in allarme da un uomo mascherato da “sceicco” che è in realtà un poliziotto, compie una spettacolare irruzione  nella casa della donna (significative e “illuminati” le maschere da cavalieri teutonici facenti realmente parte del corredo dei poliziotti di Bonn che riverberano di una luce un po’ surreale gli accadimenti). L’uomo riesce però ad eclissarsi, e sarà l’”incolpevole” donna che lo ha ospitato a venire arrestata. Tutta la sua vita privata viene violentata e deformata  dalle interferenze feroci della “santa trinità” di cui sopra, fattivamente occupata, a mettere in piedi un’isterica caccia alle streghe di derivazione maccartista, su presunte appartenenze a organizzazioni terroristiche e “complotti segreti”. Sarà soprattutto il giornalista Tötges a preoccuparsi di montare le cose per farne un caso da “prima pagina” scavando nel passato della donna, per individuare i nomi dei precedenti amanti e “denunciare” ipotetiche frequentazioni sospette.

Gli umilianti interrogatori, il linciaggio morale di una pubblica opinione scientemente manipolata ad arte, la conseguente morte della madre e l’imprevisto arresto del giovane, spingeranno infine Katharina  - una volta rimessa in libertà - a reagire indignata. Ucciderà così il giornalista (attirato in trappola con un pretesto)  responsabile del vero e proprio “stupro morale”  perpetrato nei suoi confronti.

Un “delitto d’onore” dunque il suo (credo che sia possibile definirlo proprio così), ma anche un gesto estremo e “necessario” di legittima difesa... qualcosa insomma di  molto diverso da un atto estremo  di “giustizia privata” fine a se stesso.

Una coraggiosa premessa al film spiegherà comunque “implacabile” e precisa  che i personaggi sono inventati, ma i riferimenti… inevitabili e “certi”.

Forse fu proprio per questo suo essere esplicito e “diretto” che il film fu vittima, nell’opulenta Germania di Bonn di quegli anni, di una incredibile “congiura del silenzio”: i giornali del monopolio Sprinter (proprietario  in quei tempi del 70 per cento delle testate tedesche) con in testa l’esorbitante numero di copie giornalmente vendute (in quegli anni  superiore ai quattro milioni) da un Bild Zeitung dalla stratosferica tiratura (che era proprio il quotidiano più direttamente tirato in ballo), non ne scrissero neppure un rigo, preferendo passare ogni cosa sotto silenzio (più redditizio e proficuo) così da minimizzarne la portata della denuncia, rendendo di fatto molto più difficile la fruizione di massa dell’opera.

I tedeschi che sostenevano di aver rinnegato il passato e di essere ripartiti da zero, venivano  così una volta per tutte richiamati in maniera inappellabile da Böll e da Schlöndorff a confrontarsi con una “verità inalienabile” che dimostrava come invece in effetti non ci fosse mai stata una vera e propria definitiva  frattura fra il “prima” e il “dopo”, perché gli stessi uomini (o comunque analoghi personaggi) erano ancora al loro posto e  nemmeno le modalità di intervento erano davvero cambiate nella sostanza pratica delle cose .

Come nel terzo Reich il “camerata Richard” accettava per presunta necessità vitale (intesa come sopravvivenza) i “lager” nazisti, – si tratta di una interessante riflessione sviluppata da  Paolo Luca Donati sulla rivista “Sipario”  n° 361/62 uscita nel  bimestre giugno/luglio del 1976 -   anche in quel presente tumultuoso e infausto segnato dalle scie di sangue del terrorismo, un rinnovato ma non diverso “herr Richard” accettava dei meccanismi repressivi analogamente devastanti finalizzati al mantenimento di in capitalismo tecnologico autore (e responsabile) di un discutibile benessere materiale che avrebbe costretto tutti, in anni successivi e molto lontani da quegli eventi, a pagare un prezzo oggettivamente troppo alto.

Quale che sia il giudizio da darne adesso (la pellicola accentua “oggettivamente” taluni schemi del cinema politico del “dopo Gavras” che potrebbero risultare adesso un po’ superati), il film costituisce in ogni caso un documento importante  che è una  vera e propria finestra rivelatrice  aperta sugli anni di piombo attraversati dall’Europa,  che mantiene il versante più interessante della sua validità, su ciò che viene costruito attorno alle reazioni di una ragazza certamente “ingenua”,  ma proprio per questo tanto più cocciuta e dunque “scandalosa”, nella strenua difesa ad oltranza della sua riservatezza, del suo pudore, dei suoi sentimenti, e di fronte alle quali “esplode” il terrorismo delle istituzioni e la violenza dell’ambiente sociale che la circonda. Da ribadire inoltre con forza che il film si sofferma anche sui meccanismi di emarginazione che mettono in luce evidenti manifestazioni di un “fascismo” quotidiano strisciante ancora purtroppo presente e forse in espansione, per “stigmatizzare” i lati oscuri della normalità benpensante (la  cosiddetta “maggioranza” silenziosa)

Oltre alla già ricordata  Angela Winkler, da mettere in evidenza anche  l’ottima prova di Mario Adorf davvero eccellente nel fornire la necessaria doppiezza al funzionario di polizia che è chiamato ad interpretare.

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