Regia di Katja Gauriloff vedi scheda film
La regista, che con la sua protagonista condivide l'origine, ne racconta la storia facendo propria la sua prospettiva con evidente trasporto, sotto la forma di un lungo viaggio nella memoria che è un percorso di formazione irto di traumi e di dolore silente e inerme.
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2023 - GRAND PUBLIC
Una fumatrice incallita con il volto segnato dagli anni, attende una ragazza fuori da un palazzo. Dopo le presentazioni - lei è Iida, l'altra Sanna - la seconda prende a parlare del funerale della madre, alla quale la prima non ha presenziato. La ragione del loro incontro è la vendita di una casa al nord che fu della famiglia, presso la quale si stanno recando per svuotarla come richiesto dal compratore. Con l'arrivo all'abitazione, ormai disabitata da tempo, sulle rive di un lago in piena foresta, Iida, già silenziosa, si chiude ulteriormente nei propri pensieri, nei propri ricordi, nella propria frustrazione.
Diretto da Katja Gauriloff, Je'vida è recitato in Skolt Sámi, lingua attualmente parlata da poche centinaia di persone appartenenti all'etnia Sámi, popolazione indigena della Lapponia, e fornisce uno spaccato sulla condizione di costrizione con la quale questa gente visse l'annessione forzata alla Finlandia nei primi anni '50.
Dal tempo presente, con l'arrivo delle due donne sul posto, la narrazione si sposta indietro proprio a quel periodo, quando Iida era una bambina di circa sette anni e aveva addirittura un nome diverso, Je'vida: nome che apparteneva alla tradizione, e che proveniva dalla lingua tramandatale dai suoi avi. Mentre la sorella maggiore già frequentava le scuole istituzionali, spinta dalla madre, lei era legata al nonno, che in quella lingua le insegnava l'arte della pesca e quella della vita, e per il quale l'apprendimento di qualsiasi altra avrebbe significato un tradimento della propria natura. L'intervento statale, con l'obbligo per tutti i bambini del luogo di iniziare a imparare il finnico (partendo dalle preghiere), è quantomai brutale, tanto da passare attraverso il disconoscimento della propria lingua e talvolta anche del nome, se - come nel caso di Je'vida - non vuol dire nulla nella lingua istituzionale.
La regista, che con la sua protagonista condivide l'origine, ne racconta la storia facendo propria la sua prospettiva con evidente trasporto, sotto la forma di un lungo viaggio nella memoria che è un percorso di formazione irto di traumi e di dolore silente e inerme, che parte dalla Je'vida bambina 'cocca di nonno', e che prima di arrivare all'attuale donna incattivita alle prese con il proprio passato, passa necessariamente per la sua fase intermedia: quella della ventenne da poco (tras)formata e da poco chiamata Iida, alla ricerca di una sintesi tra sé e sé stessa. A simboleggiare, e diffondere, in 4:3 e in uno splendido bianco e nero, lo stato di estremo spaesamento di un popolo privato delle proprie radici.
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