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Drive-Away Dolls

Regia di Ethan Coen vedi scheda film

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La recensione su Drive-Away Dolls

di mck
8 stelle

Here goes.

 

 

Quella fricchettona di Miley Cyrus, aka Tiffany Plastercaster (vale a dire Cynthia Plaster Caster, 1947-2022), ai bei tempi (quando alla Pfizer ancora mancava un bel quarto di secolo per cominciare a giochicchiare col citrato di sildenafil) drogò portandolo sul più bello un ancor jovine, ma già futuro senatore perché di privilegiata schiatta, Matt Damon, ovvero Coso, Lì, Come Si Chiama, per potergli fare, con un disposofobica/apotropaica performance groupie-artistica di collateralment’estrema lungi-miranza spionistico-politico-economica, un calco in gesso del pene eretto che, assieme ad altri quattro dildi V.I.P., giunse sino all’alba dell’Y2K dove lo ritroveremo a viaggiare nel bagagliaio di una Dodge Aries assieme alla testa mozza di Un Altro Coso, Lì, Come Si Chiama, Pedro Pascal detto Santos.

 


“(Henry James’) Drive-Away Dykes, pardon, Dolls”, road movie andro-ginoide che muove da Philadelphia a Tallahassee la sua turgida traiettoria sotto agli occhi apertamente chiusi dei rispettivi padri fondatori (e in parte, nel bene e nel male, genius loci) bronzei, William Penn e Juan Ponce de León, è il primo film di finzione narrativa, dopo il documentario d’archivio “Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind”, scritto (con la moglie Tricia Cooke, anche montatrice, e da entrambi prodotto con Robert Graf) e diretto da Ethan Coen dopo la temporanea divisione artistica da Joel che con un po’ d’anticipo rispetto al fratello, nel frattempo impegnato anche in ambito teatrale, aveva già firmato “the Tragedy of Macbeth”, ed è anche il primo capitolo (il prossimo sarà “Honey Don’t!”) di una progettata trilogia lesbica il cui trait d’union / fil rouge dovrebb’essere costituito dalle diverse interpretazioni di Margaret Qualley ("Once Upon a Time in Hollywood", "Poor Things", "Kinds of Kindness"), qui affiancata, oltre al terzetto di comparsate già summenzionate, dalle altrettanto eccellenti e spassose prove (il casting è di Ellen Chenoweth, con Avy Kaufman e Juliet Taylor la migliore nel suo campo) di Geraldine Viswanathan (“Miracle Workers”), Beanie Feldstein (“Lady Bird”, “BookSmart”, “the Humans”), Bill Camp (“Compliance”, “the Night Of”, “the Outsider”, “Monsterland”, “the Queen’s Gambit”, “White Noise”), Colman Domingo, Joey Slotnick, C. J. Wilson e Josh Flitter.

 

 

Musiche di Carter Burwell, più "Blue Bayou" di Roy Orbison & Joe Melson nella versione di Linda Ronstadt, "Cryin' My Eyes Out (Lyin' Beside You)" di Shannon Shaw, che la canta, e Dan Aurbach & Richrad Swift, e un paio di Diana Krall. 

 

 

Fotografia di Ari Wegner (Lady Macbeth, In Fabric, Zola, the Power of the Dog, the Wonder, Eileen).

 


Per rimanere agli anni venti del ventunesimo secolo il tema (il precedente, e già citato, “Zola” di Janicza Bravo del 2020) e l’alchimia (il successivo “Love Lies Bleeding” di Rose Glass del 2024) non sono certo nuovi, anzi, ma vengono rinnovati con gusto, stile e classe. Avercene, e avanti così.

 

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