Regia di Pietro Germi vedi scheda film
La cosa bella di questo film è che, pur essendo ambientato nel “freddo settentrione”, possiede l’umore pepato, ferino, quasi surreale delle commedie “meridionali” di Germi (“Divorzio all’italiana”, “Sedotta e Abbandonata”). L’Italia di Germi è un ribollire incessante di pruriti e di libidini che faticano a non traboccare da un pentolone di ipocrisia e corruzione, col coperchio del denaro e la sorveglianza del clero ad assicurare impunità e rispettabilità ai vitelloni degli anni 60, non più quelli ingenui e inquieti di Fellini, ma quelli cinici, meschini, triviali, i “mostri” del Boom economico, una spanna più abietti dell’anti-eroe Bruno Cortona. Stilisticamente, la struttura corale non giova alla fluidità del racconto e il ritmo frenetico imposto da Germi (complice l’incessante colonna sonora), come se si trattasse di una “commedia-balletto” alla Clair o Blasetti, non aiuta al pieno dispiegamento di un copione sontuoso; i personaggi sono perennemente sull’orlo della macchietta; e l’amalgama di toni, dal grottesco al patetico, non sempre è armonioso (anche se è davvero gustoso vedere come certi dissidi coniugali degenerino, senza soluzione di continuità, in combattimenti a mani nude). Resta tuttavia un film memorabile per l’acidità e la spietatezza con cui affresca il degrado borghese, la doppia morale, l’abominio di una società tanto evoluta sul piano del benessere quanto regredita su quello culturale; la donna è vista esclusivamente come catena domestica o come oggetto di piacere, e l’unica via per l’emancipazione pare essere quella perseguita da Ippolita, prototipo della Nuova Donna calcolatrice, efficientista, dittatrice. Finito il film, e accorti di quanto la Treviso dell’epoca rassomigli terribilmente alla Provincia italiana dei nostri tempi, vorremmo anche noi ripararci dalle chiacchiere, pletoriche e volgari, della “gente perbene”, mettendoci due bei tappi nelle orecchie, come quelli usati da Gastone Moschin (forse l’unico uomo, fra tante bestie e altrettanti burattini) per dimenticarsi un’atroce verità: se vuoi essere accettato dalla società, DEVI rinunciare alla libertà di amare, di seguire il tuo istinto, di vivere in maniera autentica. Nel dirci questa cosa, che poi è il succo del film, Germi salta e piè pari l’amarezza di Dino Risi e la disperazione di Marco Ferreri, e perfeziona una nuova via per la “commedia di costume”, dove il sarcasmo pare l’unica strada rimasta per contemplare la disfatta morale di un’intera concezione del “vivere sociale”.
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