Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
«questa non È una storia del cinema... ma È la mia storia». È la storia di un ragazzino, figlio di emigranti, che cresceva a Little Italy e che, con i fratelli e i genitori (che si erano sposati pur appartenendo a due palazzi diversi di Elizabeth Street, infrangendo così le tacite regole di “famiglia” e “villaggio” che si erano portati dietro dalla Sicilia), scopriva la propria cultura d’origine guardando film in televisione o nelle sale del quartiere. Martin Scorsese ha sempre parlato della sua infanzia e adolescenza di divoratore di cinema: la fascinazione dello spettacolo che ha assorbito da Michael Powell, il senso del set e della “macchina” che ha appreso dai B movies. Questa volta racconta come ha imparato il senso della Storia (personale e collettiva), e a trasferire la realtà in immagini e a trasmettere emozioni e una lezione morale: attraverso il cinema italiano di quegli anni (i ‘40 e ‘50), l’impatto di “Paisà” e “Roma città aperta”, la commozione quotidiana di “Ladri di biciclette” e “Umberto D”, la coerenza ritmica di “Senso”. Scorsese parla e mostra immagini, prima foto e ritratti di famiglia, poi gli spezzoni dei film che hanno segnato la sua formazione. I capolavori di susseguono ai capolavori, secondo una scansione prevalentemente autoriale. Infatti, “Il mio viaggio in Italia” è soprattutto un excursus sul mondo poetico di Rossellini, De Sica e Visconti nella prima parte, e di Fellini e Antonioni nella seconda. Un piacere per gli occhi e molto rimpianto per il cinema italiano che fu; ma l’operazione, nella sua forma definitiva, lascia qualche perplessità. Avevo visto “il mio viaggio in Italia” tre anni fa, nel premontaggio che Scorsese presentò a Venezia, quando, pur coprendo l’identico periodo storico, durava due ore invece di quattro. Per una volta, la versione “ridotta” era molto più efficace di quella completa, più secca, intuitiva, emozionante. Gli spezzoni di film come questi hanno un’immediata forza espressiva, la velocità con cui si incastravano l’uno nell’altro riusciva davvero a costruire l’affresco di una cultura, di una situazione sociale, dell’urgenza espressiva e del rigore teorico con cui il cinema andava di pari passo con la vita. La dilatazione dello spazio concesso ai singoli film, la divisione in capitoli, accentuano il sapore didattico dell’operazione, che finisce per sembrare un lavoro di introduzione al cinema italiano per gli studenti delle scuole di cinema americane. Solo raramente Scorsese si abbandona a considerazioni veramente personali, quando parla della sua famiglia o quando lascia emergere il fascino “di regia” che su di lui esercita “Senso”. E in quei momenti fa rimpiangere la lezione di cinema “da artista” che avrebbe potuto costruire.
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