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Beau

Regia di Ari Aster vedi scheda film

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La recensione su Beau

di mck
6 stelle

Beau cannot. Beau will not. Beau should not.

 

Beau non sta proprio benissimo: dorme con la lucetta accesa, ha una libreria piena di flaconcini di pillole (non un armadietto dei medicinali in bagno, proprio una scaffalatura a più ripiani in camera da letto) e il filo interdentale sarà la sua nemesi.

Beau, nevrotico e paranoico, e con qualche fondata ragione d’esserlo, sta per lasciare il suo appartamento per prendere un volo e andare a trovare sua madre (o forse per scappare ancor più da lontano da lei), ma Beau non può, non vuole, non deve.

Beau si distrae un attimo ed ecco che gli rubano le chiavi di casa dalla toppa della porta principale, lasciata aperta e abbandonata per un minuto, assieme alla valigia, contenente il biglietto aereo e i farmaci indispensabili, posata incustodita sulla soglia, e così gli tocca dormire con la porta chiusa, ma non serrata, tra vicini violentemente litigiosi e sguaiatamente maleducati, opossum degli angoli bui e delle intercapedini, scassinatori maldestri che non sanno maneggiare un coltellino svizzero, tentativi d’irruzione, addetti al call center dei servizio clienti e operatori telefonici del 911 che lo vogliono morto.

 


Pare proprio allora che debba/dovrà essere la stessa madre (o antagonista nemesi piloso-folivora/phyllophaga) ad andarlo a trovare/prendere/recuperare…

Beau” – scritto dal regista stesso come praticamente tutte le sue opere, prodotto da Alejandro De Leon, fotografato (bel movimento di macchina a seguire la chiusura della cerniera della valigia) da Will Emery (con l’aiuto di Pawel Pogorzelski, il quale diverrà sodale collaboratore del regista), musicato dai Prison for Kids e avente come protagonista il caratterista Billy Mayo (1957-2019), uno degli interpreti principali di “the Strange Thing About the Johnsons”, la tesi di laurea magistrale/specialistica che Ari Aster portò/presentò all’AFI (American Film Institute) Conservatory (“una specie/sorta di scuola industriale/commerciale”) lo stesso anno, il 2011 – in un certo qual senso è tanto dicotomico quanto sovrapposto rispetto al successivo “Munchausen” (2013), poi entrambi in varia misura assimilati [ovviamente più il primo, ripreso pari pari e costituentene il nucleo, che il secondo, da cui viene estrapolata la (im←)presenza soverchiante della figura materna] da “Beau Is Afraid” (già "Disappointment Blvd."), oggi/adesso (2023), un decennio & una dozzina d’anni dopo, globalmente distribuito nelle sale cinematografiche da A24 che, per l’occasione, ha fatto più o meno sparire dall’Internet i 6' abbondanti del cortometraggio (ch’è comunque possibile recuperare, ad esempio, attraverso Reddit).

* * * (¼) - 6.25  

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