Regia di Werner Herzog vedi scheda film
I segni di vita sono messaggi disperati lanciati dall’uomo contro la guerra, che è sempre inutilità, e talvolta è anche noia. La vita del paracadutista Stroszek - distaccato, dopo un grave ferimento, su un’isoletta del Peloponneso con mansioni di vigilanza – è piena della finta pace che caratterizza il nulla: in questo caso, a circondarlo è il vuoto creato dallo spostamento d’aria delle esplosioni belliche, dalla fuga dei profughi, dalla partenza dei giovani per il fronte. La solitudine opera, nel suo animo, come una bomba ad orologeria, che ticchetta sommessamente fino all’istante fatale. I minuti sono scanditi dal fremito di una terra arsa da un sole accecante, in cui il calore significa sete, e la luce è un’ossessione che tiene costantemente svegli. L’irrequietezza è un male che Stroszek coltiva dentro, ed è la stessa che il vagabondo - presentatosi all’ingresso della fortezza che il soldato è costretto a presidiare – sviluppa, invece, in un eterno pellegrinaggio alla ricerca del suo popolo, che non ha mai conosciuto, e che non incontrerà mai. L’indeterminatezza è la più malefica conseguenza dell’isolamento, che rende l’orizzonte vasto, però completamente spoglio. Vano diventa il pensiero, nel momento in cui viene meno la possibilità di scegliere e distinguere: per Stroszek il nemico è invisibile, mentre i cosiddetti amici sono i suoi due commilitoni (suoi compagni per forza) e sua moglie Nora (l’infermiera che l’aveva curato nell’ospedale da campo, e quindi sua donna per caso). I rapporti umani non hanno più senso quando non sono il frutto di una scelta, ed il lavoro diviene disumanamente logorante quando non se ne intravede lo scopo, e si è costretti ad un’indefinita attesa, nell’illusione che, prima o poi, la situazione si evolva, e gli eventi producano un significato. Nella visione di Werner Herzog, appassionato documentarista, costantemente attratto dagli aspetti più remoti e singolari del mondo, la peggiore forma di crudeltà mentale è la condanna a guardarsi intorno senza vedere niente, oppure ritrovando, eternamente, le stesse immagini arcinote. La scena dei mulini a vento è la metafora della ripetitività che fa perdere il senno, che tritura l’animo con un continuo lavorio, anziché confortarlo – come spesso erroneamente si crede - con la certezza della stabilità. È ammissibile esistere senza comunicare (come aveva dimostrato, nel corto Letzte Worte, l’eremita suonatore di cetra, e come dimostrerà il protagonista de L’enigma di Kaspar Hauser); però è inconcepibile vivere senza scoprire, senza avvertire, intorno a sé, la presenza di un universo mutevole, dotato di una forza attiva ed in grado di cambiarci. Languire è la caratteristica dell’agonizzante, di chi si spegne per mancanza di stimoli, che, anche quando sono puramente intellettuali, fanno comunque parte degli impulsi energetici indispensabili al nostro sostentamento. La svolta nella pazzia è l’estremo espediente a cui ricorre l’individuo che, avendo fame di crescere e di sapere, e non trovando il necessario alimento nella realtà, si inventa un cibo artificiale con lo strumento della fantasia. Il destino di Stroszek assomiglia, simbolicamente, a quello del deposito di munizioni che è stato chiamato a sorvegliare: un cumulo di armamenti che l’esercito non sa come utilizzare e che quindi, per manifestare la propria natura, non può far altro che imboccare la strada del caos, e saltare in aria.
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