Regia di Thomas Cailley vedi scheda film
Un presente distopico e un futuro molto reale
Che tempi! Dice un tizio dal finestrino della macchina intrappolata nel traffico all’altro della corsia opposta. L’altro è François (Romain Duris) col figlio Emile di sedici anni (Paul Kircher, anima e rivelazione del film) che sta divorando patatine mentre il padre ossessivo lo rimbrotta. Certo le patatine sono un problema!
Tempi bui, il traffico bloccato, un figlio strafottente, un cane sul sedile posteriore che abbaia come un ossesso.
E poi succede qualcosa di diverso, un uomo uccello dalle enormi ali di aquila sfonda il portellone di un pulmino e vola via a balzelloni seminando il panico.
E’ l’incipit di The Animal Kingdom.
Non c’è niente di costante tranne il cambiamento diceva il Buddha, a cui faceva eco il panta rei di Eraclito. E di metamorfosi l’umanità artistico/letteraria si è sempre occupata, Ovidio, Apuleio e compagnia cantando, nulla ha mai intrigato la fantasia quanto assistere al mutamento, e Dafne che diventa albero è uno dei miti più belli.
Sì, belli. Un tempo la metamorfosi poteva anche essere presa per una bella cosa, magari divertente, certo non orrorifica come quello che succede alla triste umanità di questi tempi.
Che tempi! Vero, tempi in cui ci crediamo il centro del mondo, immobili nella nostra alterigia di seminatori di morte. E dunque, se una stupida pandemia lascia tracce qua e là e chi viene colpito si trasforma in animale, bene, bisogna cacciarlo, recluderlo, e, all’occorrenza, ammazzarlo.
Il nostro modello è l’atleta che stringe lo strigile di Policleto, mai diventare brutti come un ranocchio, metter su un muso di maiale, gracchiare, bramire, grufolare non licet.
La nuova frontiera del cinema fantasy immaginata da Cailley ibrida la favola antica con il precipizio ecologista che ci sta travolgendo, mettendo in gioco anche la cellula primaria del consorzio umano, la famiglia mononucleare, colpita da un disastro pandemico che ne scuote e sconvolge le basi.
La madre è già diventata animale, il figlio lo diventerà.
Come raccontare tutto questo restando umani? Come evitare l’horror? Come non cadere nell’ovvio del già detto sulle sorti non magnifiche né progressive del pianeta? Come commuovere fino alle lacrime avvolti nella colonna sonora di Andrea Lazslo De Simone mentre Pierre Bachelet continua ad amare lei, che viene da un altro mondo?
Elle a de ces lumières au fond des yeux
Qui rendent aveugles ou amoureux
Elle a des gestes de parfum
Qui rendent bête ou rendent chien
Et si lointaine dans son cœur
Pour moi c'est sûr, elle est d'ailleurs
Storia distopica ambientata in un presente molto reale, l’odissea di padre e figlio procede tra visioni fantastiche e ambientazioni molto concrete. La ricerca della madre/moglie, chiusa nel sud della Francia in una specie di lebbrosario dove sono tenuti i “mostri”, tocca vertici di drammatica e assurda coerenza, tutto è consueto, i compagni di scuola, i poliziotti, le feste di paese e le bevute al pub, e tutto è distorto dall’accanimento nel rivendicare una normalità che normale non è.
Questo amore caparbio, sopravvissuto, di François per la moglie disumanizzata, il suo rapporto castrante col figlio, il bisogno del giovane Emile di spazio di crescita, la violenza cieca e brutale della gente contro il diverso, l’accanimento della caccia notturna fra i boschi (come non ricordare Scene di caccia in Bassa Baviera?) creano complessità, stratificazione, lo scenario è in continua mutazione fino al finale, doloroso e travolgente.
Non sarà la bellezza a salvare il mondo, vuol dirci il film, o forse un nuovo tipo di bellezza: sentirsi solidali con il diverso, riconoscere gli occhi di qualcuno sotto un’ispida pelliccia di orso.
Forse sarà l’amore, mais d'ailleurs.
Se ti prendono è finita, resterai da solo, dice il padre al figlio, credendo di proteggerlo.
Tu resterai solo, risponde il figlio.
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