Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
L'ultimo film di 'Beat' Takeshi non ha il carattere definitivo-suicida degli ultimi film del maestro - almeno dal Takeshis' del 2005. Non sembra finire, finisce all'improvviso, anche se probabilmente dopo 130 minuti non era più rimasto nulla da raccontare: il deserto rimasto dopo una strage trasversale a corpi, storia (verità storica), onore e tradizioni del Sol Levante, un cortile di teste mozzate e busti trafitti. Il deserto c'era già prima, e il dolly su un fiume che si chiude sul moncherino di un collo da cui escono dei granchi all'inizio del film lo dice chiaramente. È un Giappone fossile, già scarnificato da visioni, revisioni e metarevisioni - Oshima uno dei primi che viene in mente - la cui storia è attraversata e violentata da immaginari esterni e dalle riletture di genere. Su un tale cadavere, idealmente innalzato dalla tribù che festeggia l'idea di morire nei boschi, Kitano fa un film non conclusivo, forse troppo iconoclasta per esserlo, in cui in mezzo al deserto demenziale è rimasto solo l'artefice - vivo - di quella demenza.
Nella storia secentesca - piena di capricci e deformazioni - di shogun e samurai che si sterminano vicendevolmente per ottenere il potere, il film prende più direzioni perché la sua demenza onnicomprensiva deve contenere idealmente tutti: gerarchie sociali capovolte, soggetti immigrati più o meno inseriti nei meccanismi di potere, geishe che in realtà sono ninja, harakiri a cui non crede più nessuno. Il ritmo è febbricitante ed eversivo e nonostante ciò in mezzo a tale strage sopravvive un cinema affabulatore, di intrighi ridicoli (che non serviranno a nulla) e stilettate metariflessive (il comico Sosori che uccide, fuori dalla verità storica, il samurai Ieyasu). Una forza narrativa prorompente, più approcciabile degli intrichi logorroici degli Outrage e pieno di gusto formalista (c’è addirittura uno split screen), action painting di tagli, stanze, rituali e sangue. Un gran Kitano in grande spolvero.
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