Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
La storia d'avvicinamento di due quarantenni appartenenti al proletariato finlandese diventa un inno alla tenerezza degli ultimi
Non ho una particolare predilezione per il cinema di Kaurismaki, che trovo a volte scarsamente empatico e con una comicità tragica priva di speranza, ma non posso non constatare quanto Foglie al vento mi abbia commosso e nel contempo sorpreso per i suoi momenti di imprevedibile umorismo.
L’ultimo lavoro di Kaurismaki è innervato di omaggi al cinema classico americano (e non solo) e alle sue storie d’amore tormentate e irte di ostacoli, ma questo avviene con una rilettura intima e assai personale e ovviamente una ambientazione geograficamente e politicamente molto distante da quel cinema, fatto che in qualche modo ridona nuova vitalità a certi passi narrativi ben riconoscibili.
Protagonisti della storia sono Ansa (Alma Pöysti) e Holappa (Jussi Vatanen), quarantenni appartenenti al proletariato finlandese. Lei è una donna semplice e malinconica, cassiera di un supermercato; lui fa l’operaio in un cantiere metalmeccanico.
Ansa vive in una casa piccola ed essenziale, lascito della zia, ed è solita mangiare cibi scaduti presi dal supermercato, che altrimenti andrebbero gettati tra i rifiuti o dati ai barboni. Ma quella pratica, a causa della delazione di un’ottusa guardia giurata che sta “facendo il proprio dovere” le costa il posto di lavoro (azzardo un riferimento a Stéphane Brizé, La legge del mercato).
Holappa è un homeless, dorme in una baracca del cantiere in cui lavora e sopporta la sua penosa vita bevendo (Douglas Sirk, Come le foglie al vento) e fumando senza sosta alcuna, non comprendendo se il suo bere sia legato alla depressione o se sia depresso a causa del bere, ma sicuramente conscio che, tra l’alcol e l’ambiente lavorativo malsano, vi sarà una gara a chi gli causerà il suo primo cedimento fisico. Anche lui viene licenziato per essersi ferito a causa dell’assenza di manutenzione sugli impianti ma essere purtroppo risultato positivo ai test sull’alcol, classica beffa padronale.
Come le foglie al vento (1956): Robert Stack al 21 Club
L’ambientazione è in una Helsinki in cui locali e abitazioni sono stranamente pieni di oggetti d’epoca, come dei feature phones, un jukebox che suona Mambo italiano nella versione di Olavi Virta o la radio d’antan di Alsa che racconta con cinica insistenza l’incubo della guerra in terra ucraina. Quella guerra, lo si capisce dallo sbottare della donna circa la sua inutilità, non farà come sempre che aggravare la situazione economica dei meno abbienti, probabilmente gli unici che avranno da temere per quell’incubo incombente destinato a peggiorare ulteriormente la loro precarietà, figlia di un bieco capitalismo costruito sulle disuguaglianze ma che quella stessa guerra sta facendo scricchiolare con conseguenze imprevedibili.
Si assiste ad un accumulo di ingiustizie che paiono accanirsi contro questi due esseri deboli, privi di qualsiasi paracadute sociale. Loro ricevono batoste ma si rialzano come piccole formiche operose e ricominciano con un nuovo lavoro (Charlie Chaplin, Tempi moderni), affondando la propria esistenza in mestieri via via più sottopagati e inumani. Ansa prima finisce per trovare un’occupazione in nero come lavapiatti in un pub malfamato, di cui dopo poco arresteranno il gestore per spaccio di droga; poi si immolerà in un mestiere prettamente maschile, spalando e trasportando ceneri di siderurgia in un carriola. Ma, al contrario della Alex Owens di Flashdance, Ansa non ha e non può avere sogni di fama e successo; sogna semplicemente di sopravvivere ed andare avanti; sogna l’amore ascoltando musica alla radio; sogna una compagnia che troverà in un piccolo cane (Chaplin) altrimenti destinato alla soppressione.
Holappa intanto, pur trovando un nuovo impiego, perde l’alloggio in baracca e dorme per strada o nelle stanze di accoglienza per senzatetto.
Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi
i giorni felici del nostro amore
Com'era più bella la vita
E com'era più bruciante il sole
Le foglie morte cadono a mucchi…
Le foglie a cui si ispira il titolo originale del film sono quelle morte della poesia di Prévert, di cui si potrà perfino ascoltare la versione finlandese della composizione musicale di Kosma. Ma le foglie morte sono ovviamente anche metafora di questi esseri umani in pena, che stentano ogni giorno a sopravvivere, svolazzando secondo la guida del vento per poi cadere al suolo.
Sconcerta notare come in uno dei paesi con reddito pro capite tra i più alti al mondo ed una qualità della vita mediamente elevata vi siano persone tanto ai margini. Ma è lo stesso Kaurismaki a dichiarare che in Finlandia non esistono grandi stratificazioni di classe, c’è piuttosto un benessere mediamente ben distribuito a fronte di cittadini in condizioni di stento e povertà: veri e propri fantasmi, sfruttati e sottopagati, a cui sembra che non sia riservato alcun diritto ad una vita poco più che decorosa. L’occhio di Kaurismaki ha però per loro un’inclinazione umanista, non c’è critica sistemica diretta, quanto piuttosto osservazione del collasso individuale nel mondo degli emarginati sociali.
E in quel diluvio di ingiustizie il regista ci mostra anche elementi di umana solidarietà, a tratti quasi inverosimili, come le dimissioni per protesta delle colleghe di Ansa o l’infermiera che dona ad Holappa gli abiti del marito scappato di casa, che tanto non potrà più ritornare all’ovile perché è stata cambiata la serratura della porta.
Eppure in tutta questa mestizia di fondo sembra che uno spiraglio di luce non possa essere negato ai due protagonisti: Alsa e Holappa si incontrano in un locale di karaoke dove lui è stato portato con insistenza dal collega Raunio (Martti Suosalo) con cui divide il sonno e lei è accompagnata da un’amica; un ripetuto incrocio di sguardi sfuggenti tra i due dice già tutto (il tema da Breve incontro permea il film perfino con la colonna sonora del Piano Concerto n. 2 di Rachmaninov). Holappa, dopo quella serata, reincontra Alsa nel bar malfamato dove lei lavora; poi la rifocilla in un locale, notando quanto sia affamata, e infine la porta al Ritz per assistere insieme alla proiezione de I morti non muoiono di Jarmusch. È quasi un inno al potere catartico del cinema con cui perfino le due anime solitarie riescono a risollevarsi dalle tristezze delle proprie vite, consentendo loro un primo approccio amoroso, mentre sullo sfondo, all'uscita dalla sala, troneggiano le locandine de Il disprezzo, Breve incontro e Il continente scomparso (ma ne troveremo altre anche sulle pareti dei bar), innumerevoli piccoli indizi e sorta di linea guida sui registi amati da Kaurismaki.
Due cinefili fuori di testa paragonano il film di Jarmusch rispettivamente a Diario di un curato di campagna di Bresson e Bande à part di Godard: per Kaurismaki è sia una citazione omaggio, sia un feroce divertissement diretto ai critici cinematografici. Certamente il cinema di Kaurismaki ha tantissimo Bresson nelle proprie vene, soprattutto per quell’idea di recitazione per sottrazione, a cui ben si presta soprattutto Alma Pöysti, con movimenti degli attori frenati, ridotti all’essenziale, all’inespressività, a uno sguardo incerto, a una inarrivabile smorfia, a piccoli sommovimenti dell'anima percepiti da pochi gesti elementari che spezzano con sorpresa la monotonia del quotidiano. Questa staticità è evidente ad esempio nella sala del karaoke, quando il barista al bancone assume una posa statuaria, pronto a scomporsi solo se qualche cliente chieda ancora da bere, salvo ricomporsi subito dopo aver servito, mentre gente stramba sale sul palco per stonare canzoni finlandesi o la Serenata di Shubert.
Un grande amore (1939): Irene Dunne, Charles Boyer
Fuori dal cinema Ansa e Holappa decidono di volersi rivedere ma lei preferisce limitarsi a scrivere esclusivamente il proprio numero di telefono senza nome su un foglietto di carta che Holappa mette in tasca, perdendolo subito dopo mentre estrae il consueto pacchetto di sigarette (sembra quasi di assistere ad una “sfida al destino” a la Serendipity). Holappa, quando si accorge di aver perso ogni contatto con la donna, si rammarica sfogandosi in un locale con Raunio sotto un poster di Rocco e i suoi fratelli e torna ogni sera davanti al cinema, sperando di ritrovare la donna. Fumando come un forsennato, lascia numerosissime cicche per terra che, oltre ad esprimere la sua ansia, sono una sorta di filo d’Arianna, un segnale della sua ricerca che non sfugge agli occhi della donna e consente ai due di ritrovarsi.
Quanta tenerezza fa Alsa quando compra al supermarket piatto e posate dopo aver invitato a casa Holappa per una cena a base di asparagi. C’è in quell’acquisto il poderoso conflitto tra una condizione di disperazione prossima al baratro dell’indigenza ed il desiderio di un incontro dignitoso, con la speranza di assaporare una qualche felicità che quell’uomo, differente dai soliti mascalzoni, potrebbe donarle.
La casetta di Alsa è spoglia, ma cromaticamente sembra d’essere in una piccola fiaba che fa sinergia con quell’incontro dal sapore quasi adolescenziale. Lei però sorprende l’ospite a sorseggiare il suo fiaschetto d’alcol e reagisce dicendogli che ha perso padre alcolizzato e madre che ne è morta di crepacuore. Holappa, in un moto tra rabbia e orgoglio, reagisce piantandola in tronco. Divorato dai sensi di colpa finisce però nei giorni successivi in un bar dove il mitico duo indie finlandese Maustetytöt canta emblematicamente “tu mi piaci, ma è me che non sopporto”. Le sonorità si sposano perfettamente col clima malinconico del film.
I due riusciranno nuovamente a rivedersi, lui ormai convertitosi alla sobrietà (ancora Sirk), ma un nuovo appuntamento salterà a causa di un tram che investirà il povero Holappa (Leo McCarey, Un grande amore; Douglas Sirk, Magnifica ossessione), mandandolo in coma all’ospedale, da cui lei riuscirà poi a risvegliarlo con la cura delle proprie parole che leggono riviste scandalistiche su fatti truculenti o compilando cruciverba (Pedro Almodóvar, Parlo con lei, ma anche tanti altri). Sembra che il destino abbia deciso che quelle due vite solitarie, dopo aver affrontato ansia, solitudine, ristrettezze, sacrifici, rinunce, separazioni e reincontri, meritino realmente la possibilità di fare un cammino di strada insieme.
Foglie al vento (2023): Jussi Vatanen, Alma Pöysti
Convince la fotografia di Timo Salminen, sia per le soluzioni cromatiche che per il gusto dell’inquadratura (si pensi alle poderose immagini delle fabbriche) e la capacità di cogliere l’espressività nascosta nell’apparente incomunicabilità degli attori.
Il film, uscito a fine 2023 ed ancora reperibile a febbraio 2024 in qualche sala, conferma quanto la cinematografia di qualità sia viva e vegeta ed in alcuni casi paia sposarsi con le allergie del grande pubblico alle patinate e disumanizzate produzioni di cassetta. I 6 anni di pausa di Kaurismaki sembrano essere volati e mostrano quanto il regista finlandese abbia ancora molto da raccontare.
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