Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
La zona del disinteresse. Dell’indifferenza. Dell’addestramento alla disinvoltura a due passi dall’orrore. Il messaggio arriva forte e chiaro, nel giro dei primissimi minuti.
Non si può negare sia stato fatto un eccellente lavoro a livello specialmente sonoro, definito dal regista stesso quasi il “vero film”: difatti, a colpire più d’ogni altra cosa è forse proprio quella incessante – e atterrante – tessitura sonora, quel perenne clangore da catena di montaggio taylorista, quei clamori e quelle grida appena smorzati, quel brusio perenne dei crematori, quei colpi di fucile, quello sferragliare di treni. Impossibile non udirli.
E ancor di più: l’alto fumo della combustione. Umana. Impossibile non percepirne il lezzo nauseabondo. Si deve aver fatto una consapevole scelta di, appunto, “ignoranza” (una sequenza che rimane nella memoria: l’anziana madre che si sveglia nel cuore della notte illuminata dal tetro bagliore rossigno proveniente “dall’altra parte”).
Senza dubbio alcuno, una scelta di non-mostrare l’Olocausto inedita, originale, più di qualunque Figlio di Saul. La descrizione di una vita “serena e tranquilla”, a tratti quasi d’un idillio campestre, le discussioni sulle dive e i programmi per una bella gita alle terme in Italia, la costruzione di un “paradiso” da sempre agognato nel quale crescere figli “forti, sani e felici”. Blut und Boden. Lebensraum.
L’effetto agghiacciante si raggiunge in pieno. Quella freddezza glaciale (che l’Hoss reale mantenne fino all’ultimo), che induce a distrarsi ad una festa col pensiero di come meglio portare a termine l’immonda opera, si proietta oltre lo schermo colpendo dritto in faccia lo spettatore come un manrovescio.
E dunque il film di Glazer non si può che consigliare di vederlo, almeno in un'occasione. Tuttavia, una volta che tale sentimento viene ad insinuarsi, una volta che il concetto alla base della pellicola si palesa e palesa di nuovo, soggettivamente non si vede l’ora che finisca. Lo si può considerare in parte un pregio, perché porta a riflettere e interrogarsi. Ma ci si ritrova a pensare che altrettanto efficace si sarebbe rivelato un film ancora più stringato o, ad esempio, un’installazione artistica (e il set in certo qual modo lo è stato: La zona d’interesse è stato infatti girato con diverse cineprese in contemporanea, sparpagliate per la casa e il “meraviglioso” giardino e operate da remoto, col solo ausilio della luce naturale).
Se probabilmente non ci si trova in presenza di un capolavoro, si è posti dinnanzi però ad un film importante. Nella sua voluta “monotonia”, nel protrarsi insistito di sequenze di insostenibile “leggerezza”, di nuovo nella raffigurazione di un affaccendarsi quotidiano raggelante. Al di là del cinema, un’"esperienza", per così dire, unica. Come sottolineato da altri acuti commentatori, l’immaginarsi lo sterminio scientifico industriale di milioni di persone, nella sua giornaliera ripetitività, fatta di viste, suoni, odori, nell’indifferenza di carnefici rassomiglianti a burocrati, inchioda e trafigge lo spirito forse più di qualunque rappresentazione diretta.
E ciò è sicuramente il maggior merito del film: l’indurre a riflettere circa l’abisso cui è capace di giungere l’umanità. E, si sa, quando si scruta l’abisso l’abisso scruta a sua volta. Ed ecco allora l’indefinibile malessere di un semplice schermo nero, del ritrovarsi da soli di fronte all’oscurità. Senza fondo.
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