Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
Se Schindler's list toccava il cuore e Il pianista toccava l'anima La zona d'interessa li penetra e li spezza.
Sarò sincero, Jonathan Glazer l’ultima volta con Under The Skin mi aveva molto interdetto per un semplice motivo. Quando aggiungeva elementi narrativi di stampo fantascientifico o normali creava alla storia ancora più domande e imprecisioni rendendo il tutto sempre più inefficace.
Con questo LA ZONA D’INTERESSE invece aggiunge poco e intensifica esponenzialmente la messinscena togliendo più virtuosismi di regia possibili. Risultato, nessuna retorica o morale, pochi movimenti di macchina, poche location, pochi attori, poche scenografie, poche musiche, ma tutti funzionali al massimo e con tantissima sostanza.
Persino la storia è “poca”: una famiglia tedesca, marito, moglie e cinque figli, vivono le loro giornate felici e serene in una bella casa in campagna, un grande giardino con piscina, un boschetto con fiume adiacenti, il lavoro di lui molto ben pagato, a pochissimi passi da casa e molto stimato dai colleghi. Un giorno il marito sarà costretto a trasferirsi per lavoro, creerà disappunti e disagi alla moglie, ma cercherà comunque di non far sentire la lontananza a lei e ai figli. Tutto normale, se non fosse che l’uomo in questione è Rudolf Hoss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz.
Senza dilungarmi troppo, il film crea senza ombra di dubbio un conflitto interiore sempre più crescente. I personaggi, inquadrati spesso e volentieri da lontano, non si riesce del tutto ad odiarli visto il loro vivere normale quotidiano, ma neanche ad amarli vista appunto la loro posizione privilegiata di fronte al male. A livello di messinscena il muro di cinta simboleggia molto l’umanità nel giardino e la disumanità nel lager, ma anche il contrario, ossia l’umanità infranta nel lager e la disumanità banalizzata nel giardino; come Eden e Inferi che si mescolano a vicenda. Il tutto facendo vedere solo il lato della ricca proprietà e facendo percepire cosa succede dall’altra parte. Il sonoro poi sempre continuo, sempre più presente e molto disturbante e martellante in certi punti, soprattutto nei titoli di coda come se ti cacciassero dalla sala coi sensi di colpa. Le immagini sono azzeccate, semplici e alcune con colori dominanti e significativi.
Il finale invece è simbolico e allegorico dove la banalità del male, ma anche del bene sono senza tempo e fa’ capire in un certo senso quale destino sia toccato ai deportati e a Rudolf Hoss.
Consiglio di vederlo? Sì, specialmente a chi è pronto a mettersi una mano sulla coscienza vedendo uno spezzone di storia tanto pacato quanto inquietante.
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