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La zona d'interesse

Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film

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La recensione su La zona d'interesse

di Antisistema
9 stelle

In principio ci fu il buio. L’oscurità totale, che nasconde il senso primario dell’essere umano; la vista. L’immagine celata all’occhio, obbliga ad acuire gli altri sensi; in primis l’olfatto, il tatto ed infine l’udito.
La lunga schermata nera iniziale di “La Zona di Interesse” di Jonathan Glazer (2023), trova nel muro separatorio fisico, il simbolo della voluta cecità del primo comandante Rudolf Hoss (Christian Friedel), di sua moglie Hedwig Hoss (Sandra Huller) e dei loro cinque figlia, dall’orrore presente nel campo di concentramento di Auschwitz.
L’oscurità è generata per sottrazione; ovvero l’assenza di luce, elemento in verità sempre presente grazie all’illuminazione naturale adoperata dal direttore della fotografia Lukasz Zat.
Inferno e paradiso sono separati da un grigio confine di cemento, che permette la creazione del secondo, sulla base dello sfruttamento del primo.
Dio non trova spazio in questi luoghi, perché tali opposti stavolta sono frutto di un’ artificiosa costruzione umana, che ha colonizzato lo spazio vitale ad Est - secondo i dettami dell’ideologia nazista del “Lebensraum” -. I tedeschi si sono posti a capo del nuovo ordine naturale, schiavizzando e depredando i “popoli inferiori” di tutti i loro beni, arrivando a costruire un orrore capitalista, che giunge a ridurre i corpi degli ebrei in cenere, spolpando ogni loro elemento organico utile alla macchina del Reich.
Gioielli, cappotti, pellicce, denti etc… la famiglia Hoss costruisce la propria prosperità economica su un genocidio quotidiano, di cui è perfettamente consapevole, ma sceglie volontariamente di non vedere.
Dove l’occhio umano si ferma, giungono gli altri sensi; come l’olfatto del cane di famiglia, che abbaia in quanto percepisce l’odore presene sugli oggetti presi agli ebrei, venendo per questo motivo relegato al di fuori della camera da parte della signora Hoss.
La barriera non è solo il muro divisorio casa-campo, ma ogni finestra o porta della casa, da chiudere, per spostare l’attenzione mentale dall’altro al sé. In questo senso la recitazione schiettamente brechtiana degli attori, si lega alla perfezione con l’uso estensivo dei campi medi e lunghi adoperati da Glazer, nella costruzione delle inquadrature.
Il giardino lussureggiante, ricolmo di vita tra i fiori e coltivazioni varie, nella sua purezza anormale data la collocazione sinistra, accentua lo straniamento dell’osservatore, nei confronti di una famiglia assuefatta ad una quotidianità che vede la non contaminazione del proprio corpo con l’orrore di fianco, come lo scopo primario della propria esistenza.
Hedwig Hoss nel sentirsi “la regina di Auschwitz” - battuta pronunciata come se fosse la vincitrice di un concorso floreale, sempre in coerenza con lo sfasamento dal contesto della vicenda -, sceglie di fare del proprio corpo, un involucro inscalfibile nei confronti del male del mondo.

 

Christian Friedel

La zona d'interesse (2023): Christian Friedel


Nulla importa che quel verde rigoglioso del giardino, tragga il suo splendore dai morti di fianco, così come quei bianchi accecanti degli interni, risultino irreali nella loro lucentezza, dato il nero infernale a pochi metri di distanza. L’individuo umano borghese, vive in un corpo-prigione, dedito solo alla soddisfazione edonistica di sé, beandosi di una prosperità costruita sulla sofferenza del sangue altrui vagamente percepita e su una guerra assai lontana - e per questo mai sentita visto che nel film mai ne viene fatta menzione -, chiudendosi volontariamente innanzi ad una realtà dei fatti sgradevole.
Se Oscar Schindler dell’omonimo film di Steven Spielberg, innanzi al rastrellamento di Varsavia, decise di tenere fisso lo sguardo, arrivando per questo ad un dovere morale di fare qualcosa; la famiglia Hoss, sceglie di occultare l’insostenibile alla vista - chi non lo fa come la madre della protagonista, deve andare via da quel luogo - , frapponendo barriere fisiche - il muro, le canne, la porta e la tenda -, in modo da applicare il motto “occhio non vede, cuore non duole”.
In ciò sottovaluta enormemente gli altri sensi, tra cui il tatto, attraverso l’ossessione della purezza nei confronti delle “scorie” contaminate degli ebrei, ma soprattutto l’udito, in quanto il nero intangibile alla vista, dispiega tutta la sua potenza mortifera, attraverso il suono incessante, da cui non ci si può sottrarre nella sua ossessiva ripetizione - vedere in tal senso gli incubi della figlia più piccola -.
L’idea potente di partenza, con le sue asettiche scenografie, in cui ci si addentra attraverso linee geometriche laterali e frontali, tra non detto, rimosso e fuori campo; conduce ad una parte finale, in cui lo straniamento viene portato dal microcosmo familiare, a quello della macchina burocratico-amministrativa del Reich, dove la lucida follia sterminatrice, viene dibattuta in una riunione, la cui messa in scena rimanda ad una convocazione di un consiglio di amministrazione societario.
Rudolf Hoss, essendo il più coinvolto nel disegno genocida, non riesce più a separare lavoro e vita privata, intrecciatasi in un tutt’uno inseparabile, tanto da vedere pure in un ricevimento mondano, una possibile sinfonia di morte.
La totale assuefazione alla propria ideologia-lavoro, conduce ad un pessimismo atroce, in quanto per Glazer, neanche lo sguardo frontale e diretto, innanzi alle conseguenze del progetto genocida, porta a recedere dalle intenzioni, nonostante il rifiuto stesso del corpo, che ha percepito l’atto contro-natura.
Come risultato di tanti morti, non rimane che un cupo silenzio, disturbato da altro rumore quotidiano. Ma risulta un suono da routine quotidiana, incapace di scuotere le coscienze, in quanto riduce l’olocausto a reperto storico, non più percepibile visivamente, in quanto la macchina da presa può narrare la normalità del male, ma recede innanzi al male stesso, in quanto non filmabile.

scena

La zona d'interesse (2023): scena

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