Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
Sebbene su molti argomenti/eventi, già affrontati/sviscerati ripetutamente, siano stati scritti una quantità sesquipedale di testi e dirette altrettante pellicole, facendo pensare che sia impossibile aggiungere una voce che sia contestualmente integrativa, innovativa e necessaria, è ancora/sempre possibile individuare ulteriori vie espressive, dei punti di vista che consentano di estendere la visuale. Certo, si parla di rarità, di opere che diventano subitaneamente imperdibili e indimenticabili, destinate a lasciare un segno indelebile nella memoria collettiva.
Questo miracolo avviene con La zona d’interesse, che riesce ad aggiungere un prezioso quanto disturbante tassello sull’Olocausto (non accadeva da Il figlio di Saul), andando anche oltre, ossia esortando/costringendo lo spettatore a porsi interrogativi supplementari, che vanno oltre un indicibile passato, al punto più basso conseguito dall’umanità.
Rudolf Hoöß (Christian Friedel – Il nastro bianco, Amour fou) è a capo delle operazioni nel campo di concentramento di Auschwitz e vive con sua moglie Hedwig (Sandra Hüller – Anatomia di una caduta, Vi presento Toni Erdmann) e i loro figli in una splendida villetta, con tanto di giardino e piscina, adiacente ai fabbricati dove il piano nazista avanza senza sosta.
La vita idilliaca della famiglia Hoöß, che non si cura minimamente di quanto accade a pochi passi, subisce un contraccolpo inaspettato quando Rudolf riceve un ordine di trasferimento.
Infatti, Hedwig non intende in alcun modo seguire il marito abbandonando il regno che si è costruita, dove i suoi figli stanno crescendo felicemente, esattamente come lei desidera.
A dieci anni esatti da Under the skin, Jonathan Glazer torna in sella facendo nuovamente parlare di sé, questa volta – al contrario di quanto avvenuto in precedenza - portando praticamente tutti dalla sua parte, tra un’abbuffata di riconoscimenti artistici (a cominciare da Cannes, per arrivare alla rinomata stagione dei premi, in attesa degli Oscar dove con ogni probabilità non rimarrà a bocca asciutta), un’accoglienza critica nei pressi dell’unanimità (vedasi ad esempio quanto espresso da un aggregatore come Metascore) e una risposta da parte del pubblico come minimo incoraggiante (vedi i dati di Box office Mojo).
Adattando l’omonimo romanzo scritto nel 2014 da Martin Amis, il regista/sceneggiatore britannico classe ’65 gestisce e plasma un materiale complesso e incandescente, scavalca una barricata, con tanto di filo spinato, che sembrava invalicabile, raccontando l’indicibile attraverso gli occhi dei carnefici, di chi operava direttamente e di chi, noncurante di quanto stava avvenendo, godeva di una posizione di privilegio.
Da un punto di vista formale, La zona d’interesse è un lavoro millimetrico, reticolare e stratificato, tra gli spazi che abita (un prato ben tirato in sostituzione del fango, i fiori nel massimo del loro splendore al posto di sporadiche erbacce, una casa accogliente invece di camerate affollate e spoglie) e quelle azioni quotidiane che, nella loro semplice e ripetitiva consuetudine, celano/mostrano un orrore riconosciuto così come quello che allo stato attuale fa ancora più male osservare, con innesti che uncinano dettagli puntuali (come la cenere in un fiume) e con il sonoro che viene drammaticamente in soccorso di quanto rimane escluso dal campo visivo, con urla strazianti che vengono ignorate (ad eccezione della madre di Hedwig, che si dilegua nel nulla dopo una notte da incubo).
Un settaggio meticoloso che pone lo spettatore in una posizione scomoda, mandandolo in crisi, aprendo il vaso di Pandora e suggerendo/richiedendo/spingendo una serie di ragionamenti, ampi e profondi. Dunque, regnano le priorità umane, tipicamente fredde e calcolate, individualistiche e di comodo (la carriera per lui, casa e famiglia per lei, difese con le unghie e con i denti), vengono implicitamente ricordati i pericoli che scaturiscono da una forma mentis di sistema, radicata in profondità, un’egemonia che non conosce/considera/ammette eccezioni, costringe a scansionare lidi che ignoriamo, che semplicemente non vogliamo affrontare/considerare (perché è meglio andare avanti senza pensare agli altri, a quelle storture che non ci riguardano in prima persona) e pone domande indirette alle quali le risposte sarebbero perlopiù illusorie (cosa avremmo fatto al loro posto? Cosa facciamo oggi quando il mondo va a rotoli? A cosa siamo disposti a rinunciare nel nome di una causa sacrosanta?), con quella malattia denominata indifferenza che, alla luce di una normalità accettata come se fosse uno status quo da preservare, non sembra conoscere cure (mentre la preoccupazione è attualmente proiettata – tra le varie istanze disposte sul piatto - sull’intelligenza artificiale, troppe questioni urgenti rimangono completamente escluse dal radar comune).
Insomma, La zona d’interesse emette un bollettino compiuto/misto/esiziale, contornato da evidenti meriti tecnici, come le musiche di Mica Levi (Jackie, Monos) e l’impianto scenografico (di Chris Oddy – Non buttiamoci giù, ‘71), e dalle interpretazioni - inesorabilmente perfette - di Christian Friedel e soprattutto di Sandra Hüller, entrambi impeccabili e glaciali nelle definizioni specifiche a loro affidate.
In estrema sintesi, La zona d’interesse è un’opera che sposta gli equilibri, che si giova di quanto il cinema – e non solo – ha detto/documentato sull’Olocausto (con le vette rappresentate da Schindler’s list e Il pianista, scostamenti di campo come Il bambino con il pigiama a righe) per fare un paio di passi in più che gli spalancano praterie da (far) solcare. Levigato in superficie e perturbante nelle viscere, estremo e rigoroso, con poche parole e fatti, ma più che sufficienti per togliere/sgretolare certezze, con una produzione di effetti collaterali situate ai massimi storici.
Tra stati d’animo imperturbabili e la tragedia che si consuma alle loro spalle, ordini da eseguire e obiettivi da centrare, immagini pubbliche e private (con quello scarto che si fa solitamente fatica a decriptare/accettare), assunti e controcampi, angosce e alienazioni, con stimolazioni sensoriali che non conoscono confini (dinamiche riprese con camera termica, un paio di oscuramenti visivi, uno squarcio che conduce in un’area museale rimandando all’imprescindibile conservazione della memoria) e un indotto tanto sterminato (nei fatti) quanto variabile (a seconda della singola sensibilità e alla volontà di guardarsi dentro).
Lucido e annichilente.
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