Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
Oltre il giardino c’era Auschwitz.
Oltre il giardino c’era Auschwitz.
Di qua aiuole fiorite, piscina, serra di piante tropicali, stalla per il cavallo di razza a cui il padrone parla con affetto,
Il buio oltre la siepe, di là.
Glazer sceglie il buio: all’inizio il titolo sfuma in lentissima dissolvenza, segue schermo nero per lunghi secondi, quindi un cinguettìo rompe l’angoscia.
Stessa cosa alla fine, schermo nero e il rumore assordante, cupo, dei suoni di cui Tarn
Willers e Johnnie Burn disseminano il film, un mix che solo il paesaggio sonoro dell’Inferno di Dante può eguagliare.
Immersa nel nero la villa di Rudolf Höss (Christian Friedel), grigia costruzione severa anni quaranta, ampia metratura e confort ideali per una vita agiata in cui crescere i figli secondo i dettami della mistica nazista e della devozione alla patria,
Che un alto ufficiale delle SS scegliesse di vivere nella “zona d’interesse”, ampio spazio (40 km) di rispetto (si dice così) intorno ai lager sparsi un po’ ovunque sul territorio del Reich, non meraviglia. Era un onore concesso a pochi, e sappiamo che Höss fu molto amato da Hitler.
E poi c’era Hedwig (Sandra Hüller),la moglie devota, che amava star lontano dalla città.
Vivere sul lago, fare picnic fra boschi e valli d’or, era il miraggio di ogni donna ariana con la testa sulle spalle, tutta Führer, patria e famiglia.
Poco importa se si sentivano a tratti latrati, grida, sferragliamenti e via vai di treni, muri poderosi attutivano e all’odore di carne abbrustolita che una nuvola di fumo portava verso il cielo si faceva l’abitudine, e poi spesso il vento girava dall’altra parte.
Glazer sistema macchine fisse in tutto il perimetro al di qua del muro sormontato da filo spinato, nessuna incursione dall’altra parte, gli attori si muovono come se non li stesse riprendendo, lunghi piani sequenza si susseguono avvolti nel silenzio, e se parole ci sono servono a comunicare distanza, freddezza, il lessico quotidiano di un mondo svuotato.
Qui non ci sono persone a cui aggrapparsi, solo concetti, è stato scritto da qualcuno.
Esatto, l’unica persona è il cavallo a cui Höss dice Ti voglio bene quando deve lasciarlo perché lo trasferiscono in posti di altissimo prestigio, pare in Ungheria, dove lo aspetta Eichmann a braccia aperte.
Ma la casa no, moglie e figli rimangono lì, nel paradiso terrestre.
Vita di una famiglia felice al tempo del terzo Reich, a ridosso del miglior lager della storia, dove il ciclo produttivo non ebbe rivali, un milione e mezzo fatti fuori in una manciata di anni, un record.
La Harendt disse che la normalità prodotta dal nazismo era più terrificante di tutte le atrocità messe insieme.
Lanzmann peregrinò otto anni su quei posti con interprete e mdp per dire la stessa cosa.
Il male non è banale, è quello che è, e Dante lo ha descritto. Il male è tra noi, siamo noi, e poi c’è l’Inferno, metaforico.
Null’altro da dire, e Glazer sceglie la cifra più appropriata.
Ma nulla manca: la rapina agli internati, vestiti che la generosa padrona di casa invita le amiche a scegliere, una bella pelliccia con cui si pavoneggia allo specchio, la servetta-schiava a cui è concesso di vivere in casa e non morire di stenti o gasata, la giovane amante ebrea per una botta e via, e poi la cenere, ottimo fertilizzante trasportato in carriole da alacri giardinieri.
Infine la festa, occasione d’incontro in prestigiosa dimora di alti vertici del potere.
Donne ingioiellate, alte uniformi, convenevoli e sguardi eloquenti.
O la simil-conferenza di Wansee, un ampio tavolo intorno al quale si giocano tutte le pedine.
Glazer non trascura nulla, ma l’orrore lo fa immaginare, immergendoci in un’atmosfera grigia, incolore, priva di anima, come solo si può immaginare nel mondo di qua, nel giardino.
Perfino il lago, le verdi fronde, i giochi nell’acqua, i bambini in festa: uno spazio di ectoplasmi, e la telecamera termica che spacca la luce naturale per raccontare ai bambini la favola di Hansel e Gretel riveduta e corretta con inserimento di forno crematorio, è quanto di più opportuno sia dato per educare l’infanzia.
Oggi parlare di Shoah si può solo così, come Lanzmann, come Glazer, come avrebbe fatto Dante.
La ripresa finale nelle stanze di Auschwitz-Birkenau, diventata sacrario della memoria, segue malinconicamente gli inservienti che passano l’aspirapolvere o lavano le vetrine stracolme di scarpe infantili, capelli, giacche rigate, denti d’oro,
Chi vuol conoscere Auschwitz non vada e continui a immaginarla, eviterà così di vederla diventata un posto di selfie e panini.
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo,
che ha fatto della mia vita una lunga notte
e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto
i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno
che mi ha tolto per l’eternità
il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio
e la mia anima, ed i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai.
Elie Wiesel, La notte
www.paoladigiuseppe.it
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta