Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
76° FESTIVAL DI CANNES 2023 – IN CONCORSO
Un'amena gita al fiume è la prima immagine che carpiamo nella vita di una famiglia tedesca Anni 30 apparentemente del tutto ordinaria: un padre e marito premuroso, una mamma attenta e ambiziosa, cinque figli esuberanti ma ben educati e bisognosi di attenzioni. Se non fosse che, all'inizio nemmeno ce ne accorgiamo, sullo sfondo del curatissimo giardino della loro villetta si staglia l'oscura massa di un muro sormontato dal filo spinato, oltre cui spuntano i tetti di tetri casermoni. Al capofamiglia basta attraversare il giardino, uscire dal cancello e imboccare subito a destra l'ingresso di quel recinto per trovarsi sul posto di lavoro: il campo di sterminio di Auschwitz.
Il film racconta infatti uno spaccato della vita privata e familiare di Rudolf Höß, comandante del campo di sterminio più letale della Shoah. La scelta spiazzante del regista Jonathan Glazer è quella di non concentrarsi sui ben noti orrori che avvenivano nel campo, mai mostrati, solo si sentono eco di urla e spari al di là del muro e appaiono discretamente dettagli agghiaccianti come il fumo di treni al di là degli alberi o la cenere usata per concimare i fiori. Né ci si sofferma più di tanto sulle metodiche organizzative del genocidio, solo evocate in poche scene che mostrano il lavoro dell'efficientissimo dirittore della morte. La concentrazione di Glazer è tutta sul Höß quale uomo privato e sulla sua famiglia: le gite in barchetta sul fiume con i bambini, la visita della suocera, la fiaba di Hansel & Gretel letta alla figlia per farla addormentare, le conversazioni a letto con la moglie che gli fa promettere di riportarla in vacanza in Italia. E quando da Berlino arriva l'inatteso ordine di trasferimento di Höß ad un incarico a Orianenburg, assistiamo ai battibecchi con la combattiva moglie che non ci pensa proprio ad abbandonare la vita modello che si erano costruiti in Polonia (“lo spazio vitale.. questo è il nostro spazio vitale!”)
Quello che ci sconvolge dell'operazione di Glazer è che ci ricorda come un'operazione di assoluta disumanità e malvagità come la Shoah sia stata portata scientemente avanti da persone che per molti aspetti erano normali, vivevano nel privato le aspirazioni, gli affetti e le preoccupazioni di noi tutti e, mentre annientavano le vite di innumerevoli esseri umani (in questo caso non si può certo invocare il “non sapevo cosa succedeva veramente”), andavano avanti serenamente con la propria: oltre la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt qui siamo alla sua quotidianità e totale normalità.
Insieme a Rudolf (interpreto da Christian Friedel), altra figura centrale è quella della moglie Hedwig (Sandra Huller): anche lei certamente al corrente di cosa avveniva al di là del muro del suo giardino, ma preoccupata solo della sua tranquillità borghese, dell'educazione dei figli e che niente potesse sconvolgere il quadretto idilliaco della sua realizzazione personale come perfetta madre di famiglia nazista. Allora la mogliettina tira fuori le unghie e si intravedono sprazzi di ferocia , come quando minaccia la cameriera distratta che il marito potrebbe farla eliminare.
Glazer ci colpisce con una messinscena sempre controllata e rigorosa, dove l'evocazione dell'orrore è affidato alle sonorità inquietanti che stridono con la serenità della immagini, con un effetto ancor più terrificante. Ma non rinuncia mai a spiazzarci con scelte imprevedibili: verso il finale c'è un flash forward ai nostri giorni ove vediamo addette delle pulizie ripulire i locali del campo di sterminio oggi trasformato in museo: gli oggetti di uso quotidiano che ottant'anni dopo riposano nelle bacheche pulite col Vetril dalle solerti signore polacche sono il suo modo di ricordare le esistenze delle vittime dell'Olocausto.
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