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L'ombra del fuoco

Regia di Enrico Pau vedi scheda film

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La recensione su L'ombra del fuoco

di reginaldo18
10 stelle

Il fuoco del film è quello che nel luglio del 2021 ha devastato un vasto territorio, ricco di ulivi e biodiversità, della Sardegna. Col documentare per un anno la lenta evoluzione della natura del luogo, il regista ci aiuta a riflettere sul nostro attuale scellerato modo di porci nei confronti della natura di cui pure siamo parte indissolubile.

“Considero la realizzazione del mio documentario come un atto di resistenza a qualcosa alla quale non posso e non voglio rassegnarmi: la stupidità, la miopia degli umani in questo momento della nostra presenza devastante su questo pianeta”

Con queste parole Enrico Pau afferma con chiarezza il significato e la prospettiva artistica - sociale del suo eccezionale L'ombra del fuoco / S'umbra 'e su fogu. Opera che si può tranquillamente leggere, in termini gramsciani,  come arte civile, politicamente (e poeticamente) impegnata nel presente. E infatti il regista “documenta” sì un fatto di cronaca ma, con la sua non comune sensibilità poetica, coinvolge  lo spettatore portandolo a cogliere in quell’episodio le pieghe più intime e dettagliate di una tragicità epocale. 

Il fuoco del film è quello che nel luglio del 2021 ha devastato, di nuovo dopo quasi 30 anni, il Montiferru, un vasto lembo di terra della Sardegna centro occidentale. Mosso dal bisogno di documentare gli effetti rovinosi dell’incendio ma soprattutto da una risonanza affettiva verso quelle terre e dal bisogno di partecipare al lutto degli abitanti, Pau si è precipitato sul luogo il giorno dopo il disastro con con una piccola troupe di giovanissimi. Con loro  Gianluigi Bacchetta, un botanico universitario di grande sensibilità e competenza. Ma le riprese sono poi andate avanti per un anno, rinunciando ai tempi “mondani” del reportage per seguire quelli autentici e strutturali della natura. 

L’incipit del film è dominato dalle immagini attonite di un universo di non comune biodiversità violato e devitalizzato, in cui ora gli alberi spezzati e anneriti, immobili e silenti, si stagliano come fragili simulacri di se stessi. In mezzo a loro un ulivo millenario, alto 16 metri e con un fusto di circa 10 metri di circonferenza, si erge come un Cristo morto, completamente annerito, con la chioma e il tronco distrutti. Come in una tragedia greca i canti dolenti (struggenti e bellissime le interpretazioni del coro di Cuglieri), le preghiere, le invocazioni poetiche dell’uomo denunciano i laceranti sensi di colpa, la disperazione per quanto, tantissimo, è stato perso, ma anche l’antica devozione e l’irrinunciabile speranza di chi appartiene a quei luoghi e ne trae vita. 

Poi, lentamente, il ciclo stagionale della natura, col susseguirsi, come in un diario di immagini poetiche, dell’arrivo del vento, dello scrosciare tanto atteso dell’acqua, della comparsa di una bianchissima coltre di neve sulla terra ancora annerita, opera il miracolo di una pur piccola, iniziale ma prodigiosa rinascita. 

Anche l’antichissimo ulivo selvatico ha prodotto alla sua base dei germogli vitali dando corpo alla speranza dell’uomo. Ma, insieme, come ci dice il regista, ammonendo l’umanità intera per la sua presenza scelleratamente arrogante e distruttiva in un mondo di cui inevitabilmente è parte indissolubile.

 

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