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Ultimo stadio

Regia di Ivano De Matteo vedi scheda film

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La recensione su Ultimo stadio

di degoffro
2 stelle

Fin dal suo esordio il regista Ivano De Matteo non difetta in ambizione, ma il suo ritratto corale di un’umanità mostruosa, da ultimo stadio, purtroppo, non va al di là di un facile bozzettismo, di un sociologismo di bassa lega e di una caricatura persino un po’ buzzurra (se i riferimenti sono Altman o Paul Thomas Anderson c’è da mettersi le mani nei capelli).

Il celebre arbitro Achille Toscani si trova a Roma per dirigere la finale di Coppa Campioni ma è in una condizione personale di totale confusione, disagio e smarrimento: la moglie lo ha appena lasciato, manifestandogli tutto il suo disprezzo, per di più proprio nel giorno del funerale della madre. L’editore Antonio cerca in ogni maniera di inserire nella redazione del suo giornale l’inetto, riservato ed impacciato figlio Pietro, sbeffeggiato e mal sopportato dagli altri giornalisti e più interessato alla cura delle sue adorate piante (in redazione viene soprannominato “il piccolo botanico”). Il rozzo infermiere Angelo, dopo una stressante nottata di lavoro (“Stanotte mi sono caricato un fattone mezzo morto che mi ha vomitato nell’ambulanza, un teppistello stronzo con la testa spaccata e la vecchia, più morta che viva, che s’è pure cagata addosso!”) deve sorbirsi a casa i ripetuti litigi tra i due figli e le urla isteriche della nevrotica moglie, casalinga disperata che fatica a mandare avanti la casa (“Io sono stanca. Da sola tutto il giorno a casa a pulire, a lucidare i pavimenti, ad attaccare calzini puzzolenti che fanno schifo.”) e vorrebbe un po’ di spazio anche per sé. Angelo investe molto nel figlio Simone, talento del calcio (“Sto ragazzino c’ha l’oro nelle gambe. Il nostro campione ci assicura la vecchiaia!”), riversando su di lui tutte le speranze e le aspettative che lo stesso Angelo, da giovane calciatore, aveva deluso, con pesante smacco per suo padre. Quando Simone si infortuna durante una partita, Angelo lo obbliga ugualmente a continuare a giocare (“Non me fa ‘ il frocetto!”). L’avvocato di successo Marco De Cesari deve muoversi tra un padre fanatico religioso con il rosario sempre in mano, pronto a costruire una cappella dedicata a Santa Rita e di cui teme già un coinvolgimento diretto in qualche losca setta segreta (“Io lo vedo molto bene, incappucciato, con una candela in una mano, un coltello in un’altra, zac, sgozza una negra, un bel sacrificio umano alle pendici dell’altare di Santa Rita da Cascia!”), una madre ubriaca e rincoglionita, che spende più di un milione (delle vecchie Lire) in un negozio per cani e guarda inebetita alla tv i programmi di Maria De Filippi (“Proprio due genitori del cazzo”) ed il fratello minore Gabriele trentenne nullafacente, con la fissa del calcio e pure gay (“Il principe delle stranezze, la principessa, frocio di merda” in una brillante escalation di insulti rivolti a Gabriele), tanto da domandarsi preoccupato cosa poter rispondere a quel cliente che in futuro gli dovesse chiedere “suo fratello lo prende in culo?”. L’adolescente ed ingenua Alice ha una famiglia allargata (noioso padre intellettuale, madre attraente e amante del divertimento e nuovo giovane ed aitante compagno della madre) e, saltata la tanto desiderata serata per sole donne con la madre (“La mamma non ha più l’età in cui deve rinunciare a tutto per i figli, capito?”), viene sedotta dal coatto giovane padre Massimo, dopo che il suo ragazzo Billo lo ha investito casualmente con l’auto, mentre Massimo era in giro in bici. Alice passa il pomeriggio con Massimo e poi viene pesantemente molestata dai suoi amici in auto. Forse l’unica soluzione in questa società così marcia e degradata è la fuga, scomparire senza più lasciare alcuna traccia di sé, lasciandosi andare ad una risata beffarda e liberatoria, come farà uno dei personaggi.

Detto che la sceneggiatura, di Valentina Ferlan, compagna del regista, sembra scritta su uno scontrino da bar, tra un servizio e l’altro ai tavoli in una sera super affollata, “Ultimo stadio”, aperto da una citazione di Bertolt Brecht (“L’uomo è buono, il vitello saporito”) e dedicato al figlio Lupo (poi piazzato come attore sia ne ”Gli equilibristi” sia ne “I nostri ragazzi”), accumula episodi, vicende, situazioni e personaggi che a volte si sfiorano o incrociano, più spesso proseguono autonomi, con la consistenza di siparietti sterili e caciaroni messi tutti insieme un po’ a casaccio in un ridondante e plateale calderone senza arte né parte, tanto che, a più riprese, ci si pone la stessa domanda che si fa il personaggio di Giorgio Colangeli, nel prendere amaramente atto del progressivo disfacimento della sua famiglia: “C’è qualcosa che non va.” Il tono è quello di una barzelletta venuta male, giocato su un registro esageratamente grottesco e sopra le righe (esemplare l’incipit con i due giovani che, a bordo campo, se la ridono di gusto alla notizia, appena ricevuta, della morte della madre dell’arbitro Toscani) che il regista, pure interprete nei panni dello zotico Massimo, non sa gestire né adeguatamente controllare, rimanendo desolatamente sulla superficie delle cose, crogiolandosi in continue riprese velocizzate, a scatti o che a tutti i costi vogliono apparire originali, sbarellando in risvolti melodrammatici posticci e forzati (la patetica vicenda di Angelo e del figlioletto talento del calcio) o in soluzioni quasi gangsteristiche (la conclusione della vicenda di Marco e suo fratello) paradossali e ai limiti dell’idiozia.

Il film, assordato oltre tutto da una colonna sonora invadente e sempre al massimo volume, sarà pure volutamente sgradevole e provocatorio ma il cinismo puzza di avariato, le considerazioni sono di riporto, la satira è spuntata, il linguaggio è da ultrà (De Matteo è stato tifoso laziale e al fenomeno ha dedicato il documentario “Prigionieri di una fede”), lo stile è greve, la fotografia umana che ne esce è oltre modo sfocata. Un solo fotogramma de “I Mostri” risulta più incisivo e feroce di questa accozzaglia di volgarità e sciocchezze, percorsa per di più da un razzismo di fondo assai fastidioso verso le donne (il dialogo tra Angelo e l’amico Pino, dietro la rete, al campo di calcio, sulle rispettive mogli ormai sfatte – “Poi dice che uno va a mignotte!” – o i pesanti commenti di Massimo con i suoi amici su Alice), gli extracomunitari (“A labbrona” è il delicato epiteto rivolto a una donna di colore, mentre il figlioletto, che sta per tirare un calcio di rigore, viene apostrofato dai genitori/tifosi avversari con un elegantissimo “A scimpanzè de merda”), i gay (il ricorrente termine frocio). Un cortocircuito straniante in forza del quale si cade rovinosamente in quelle stesse situazioni che si vorrebbero criticare. Attori in imbarazzante e deprimente libera uscita con un Giorgio Colangeli (il padre fanatico deluso dai figli) che non si può vedere, un Valerio Mastandrea (poi per il regista protagonista assoluto de “Gli equilibristi”) in una comparsata che non lascia traccia e un Elio Germano quasi agli esordi, ma già pericolosamente sovreccitato e senza misura (qui si mette pure a scimmiottare con un peluche il Bob De Niro di “Taxi Driver”). Germano farà ancora coppia con Victoria Larchenko (Alice) nel successivo lavoro del regista “La bella gente”.

Nel disastro si salvano un tenero e dignitoso Rolando Ravello, nei panni di un figlio di papà senza ambizioni, che vorrebbe essere solo lasciato in pace, “in panchina” per godersi la sua “squallida, normalissima esistenza” e un Franco Nero che dimostra senza fatica di essere una spanna sopra tutti e che, inconsapevolmente, nel commentare con brutalità un editoriale irricevibile del suo giornale, fornisce un assist perfetto per il più classico degli autogol: “Questa roba fa cagare. E’ qualunquismo da quattro soldi. E’ la banalità, la banalità con cui viene trattato il soggetto. Non mi suscita alcuna curiosità o interesse!” Che stesse parlando del film?

Voto: 2

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