Regia di Xiaozhi Rao vedi scheda film
Il canovaccio del thriller geopolitico è più che testato, anche a partire dai fatti di cronaca: uno sparuto gruppo di ambasciatori e responsabili degli Affari Esteri di un Paese che devono salvare ed evacuare da un altro Paese in guerra i loro connazionali, per difenderli da scontri civili e guerriglie intestine. Si dà il caso che in Home Coming gli ambasciatori siano cinesi e il Paese in guerra sia una versione alternativa della Libia, i cui nomi sono opportunamente storpiati. E il percorso è sempre quello, spalmato in più di due ore: conflitti confusionari, esplosioni a sorpresa, tragedie, viscere e vittime della guerra. È tutto talmente anche testato in Occidente che poco permette di distinguere fra la vanità statunitense di film simili e l’ottusità propagandistica della superpotenza asiatica: patria, famiglia e gloria, mentre le ragioni profonde delle tensioni internazionali si perdono in brandelli di retorica. Piuttosto assurdo che proprio l’approccio tribale dei terroristi africani venga preso ad esemplare di rottura di qualunque senso diplomatico: cosa c’è di più tribale del difendere con facili piagnistei un interesse nazionalistico?
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