Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Il filone nostalgico – minimal – intimistico dei fratelli Avati è ormai entrato nella fase marzulliana. Un cinema sottovoce, piano piano, dolce dolce come piace a loro. Peccato che quest’ultima fatica sia all’insegna del patetico andante. Echi di, nell’ordine: “Dichiarazioni d’amore”; “La cena per farli conoscere”; “Ma quando arrivano le ragazze?”, si riverberano ne “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”. Del primo titolo le atmosfere di Bologna d’antan, del secondo il personaggio di Marzio in età matura costretto a rifare il verso di se stesso su sfondi fittizi e applausi finti (scena a dire il vero che ricorda il “Re per una notte” di Scorsese, altro personaggio sconfitto al limite del ridicolo). Del terzo titolo la storia del triangolo mostra la corda perché troppo reiterata dagli autori. Una variante in cui il duo Leggenda (come il duo Morante-Rome de “Il figlio più piccolo”) ha in Marzio l’elemento ribelle e votato all’autodistruzione de noantri. E nell’amico rivale Samuele il buon impiegato di banca che lo molla al suo destino di cantante di provincia e da Antoniano. Quando Marzio adulto (Gabriele Lavia), nelle battute iniziali prima di vari inserti in flashback, lo va a ritrovare ora nei panni di direttore di banca la pellicola inanella una serie di disgrazie. Samuele, interpretato da un lugubre Massimo Lopez, si suicida. La ex moglie Sandra riappare povera e senza dimora ma sempre avvenente, poiché interpretata da Edwige Fenech (la doccia non funziona, citazione spiritosa per modo di dire). La giovane coppia Marzio e Sandra (la più bella ragazza di Bologna, sic!) sono Lodo Guenzi e Camilla Ciraolo.
Pupi Avati, dopo gli esperimenti più o meno riusciti Dario Parisini e Cesare Cremonini, lancia il leader de Lo Stato Sociale come attore. L’esperimento sembra essere riuscito, gioco facile per Guenzi sussurrare, fare spesso lo sguardo stupito a mezza bocca per sottolineare lo sconforto per Sandra che lo lascia senza motivo e poi lo riprende in tarda età. A tale proposito Gabriele Lavia, in giacca di pelle nera, funziona di più con quell’aria stropicciata, in vacanza da Dostoevskij e costretto a monologare con una evanescente Fenech ripescata da un divano di casa. Sempre Lavia sembra irrompere sul set tra una prova e l’altra di Pirandello senza fiore in bocca ma con una chitarra a tracolla. Misteri Avatiani il passare da un genere (l’horror di qualità) al minimalismo di provincia da presentare al presidente Mattarella in pompa istituzionale. Per tornare al registro patetico doloroso ecco un tumore uterino e dopo un trauma cranico, la nostalgia però rimette tutto a posto grazie al padre Cesare Bocci che indica al buon Marzio quel chioschetto in cui si poteva sognare.
Non è un film di Frank Capra né un horror ma quasi, se “La quattordicesima…” lo si rimontasse dalla fine al principio. La prova provata che gli Avati sono avvitati su se stessi e il loro glorioso passato è il brano principale Sandra musicato da Lucio Gregoretti, una scopiazzatura senza vergogna del compianto maestro Riz Ortolani.
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