Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Un uomo maturo, un pittore che vive nel centro di Roma, un giorno scopre che tutta la sua famiglia, ex moglie compresa, ha organizzato a sua insaputa il processo di beatificazione di sua madre. Perplesso, Ernesto si aggira nei meandri di un parentado e di conoscenze che all’improvviso riscopre papaline e conformiste, costretto suo malgrado a riaprire i conti con un passato che, nel suo convinto e quieto ateismo, pensava di aver superato. Riscopre sul suo volto, ogni tanto, quel sorriso aleggiante che tutti, urtati, gli rimproverano e che lui riconosce come eredità sgradita, vagamente indifferente e sacrificale, di quella madre che non ha mai condiviso. E percorre, tra un amore nuovo al quale non si sottrae e un gesto di quotidiana attenzione verso il suo bambino, un cammino kafkiano che lo riconferma nella coerenza della sua vita: un po’ ai margini dell’inquadratura, senza mai apparire in televisione, senza padri e padrini che facciano di lui qualcuno, senza madri. Con “L’ora di religione” Marco Bellocchio firma non solo il suo film più denso e rigoroso degli ultimi anni, ma anche una limpida dichiarazione d’intenti morale. Come essere e come il mondo intorno a noi (anche le persone più care) vorrebbe che fossimo; e il bisogno incessante di scrollarsi di dosso le tentazioni dell’aquiescenza e del buon senso, di ripercorrere la propria storia fino all’ultima contraddizione, fino all’ultimo dolore. Per riuscire a darle un senso, che può essere quello semplicissimo di accompagnare il proprio bambino a scuola e magari di riuscire così a condurlo in un posto dove Dio non ci sia e lui possa finalmente essere libero di stare solo. Con Ernesto, ci aggiriamo tra il paradosso e l’incredulità, avviluppati in un’atmosfera che passa senza soluzione di continuità dalle volute opprimenti di un incubo vaticano (la festa con i suoi ralenti, l’improvvisa apparizione e i discorsi deliranti dei nobili neri, il surreale duello all’alba) alla straordinaria pulizia d’immagine della vita di tutti i giorni, delle strade romane riprese attraverso i finestrini di un’auto, della scuola elementare, del giardino illuminato nel quale il bambino cerca di nascondersi da Dio. Bellocchio ci dimostra ancora una volta che lo stile non è un accessorio discrezionale, ma è il film, con le sue inquietudini e le sue illuminazioni, con la strada, precisa, che deve percorrere. Ci sono momenti in “L’ora di religione” in cui, come il suo protagonista, ci perdiamo; c’è un’inquadratura, che ritorna più volte, puntuale, con un guizzo di ironia e forse di orrore sotterranei, a farci ritrovare la strada (quella della famiglia schierata, e poi in marcia verso l’udienza papale – e non andremo, come il protagonista, in quella direzione); c’è, infine, un attimo di straziata commozione, in cui tutti i conti di una vita tornano, in cui si toccano con mano il dolore, lo spreco, il sacrificio, la disperazione. C’è un povero matto in un manicomio che urla bestemmiando la sua tragedia, che ci ributta a capofitto nei gesti e nei singulti di Alessandro nei “Pugni in tasca”, 37 anni fa, una vita fa, un mondo fa. La pace non è con noi; ma a quel povero matto e al suo urlo disperato qualcosa dobbiamo. Non fosse altro che un pochino di rigore.
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