Regia di Gareth Edwards vedi scheda film
Come se il tempo si fosse fermato, Gareth Edwards ritorna al cinema a sette anni dal suo film precedente (Rogue One - A Star Wars Story), ripescando a piene mani dall’immaginario bellico a sfondo sociale che ha contribuito a creare. Eppure la multiformità starwarsiana meglio si adattava a concretizzare la portata delle sue idee.
La Morte Nera?
In un clima in cui il blockbuster fantascientifico fatica a trovare il suo spazio, a parte i soliti noti a cui il termine sta anche stretto, Edwards confeziona anzitutto un mondo nuovo: le ispirazioni (che sono anche aspirazioni) sono molteplici, da Terminator ad Avatar. Proprio di quest’ultimo è però diretto epigono, nonostante venga spesso ignorato nelle varie elencazioni di possibili progenitori. The Creator condivide molto con la creatura di Cameron, anche per come se ne distanzia, a partire dal sostrato sociopolitico che agisce da primo motore. Se in Avatar l’ostentato binarismo aveva quantomeno il sapore di una semplificazione per amor di inclusione (è innegabile che parli a un pubblico trasversale), qui è come minimo un’idea infelice, perché il film di Edwards restituisce la sensazione di essere un bignami sull’Intelligenza Artificiale e le sue conseguenze (citazione voluta). Le battute di stampo informatico, purtroppo, si sprecano.
Lungi dal voler elencare punti di contatto e di distanza tra i due prodotti, è però necessario discuterne ai fini di analisi del singolo film in esame. Anche qui gli americani sono sporchi e cattivi, al limite del sadismo. A opporsi al colonialismo a stelle e strisce solo un manipolo di nativi (in Avatar più letterale, qui ad essere native sono anche le macchine), che credono nella convivenza pacifica e sono ancora legati a una dimensione spirituale che l’Occidente sembra ormai aver perso. In mezzo, un protagonista (John David Washington) ex militare la cui disabilità lo porta - non che ce ne fosse bisogno, vista la rappresentazione cartoonesca dello schieramento umano e occidentale - a parteggiare con l’idea di un mondo pienamente globalizzato che sappia unire il rispetto per la natura al progresso tecnologico. Un punto a favore, però, per aver sostituito il white savior di Avatar.
Gli equilibri geopolitici - che hanno una profondità minore di una partita a Risiko - si limitano a uno scontro aperto, la cui logica sfugge a un più approfondito scrutinio, tra gli Stati Uniti e un Oriente visivamente assottigliato al solo Vietnam (già d’ispirazione per Rogue One). Ci si aspetterebbe che la profondità del grande schema delle cose possa essere stata sacrificata in nome di un dramma bellico e familiare di scala ridotta, eppure così non è. Il personaggio di John David Washington è vittima di una scrittura che lo tratta come pedina ingenua in balia degli eventi, nonostante ci si aspetti diversamente visto il background dello stesso. Un twist in particolare non ha consistenza drammatica - noi ne siamo subito consapevoli, ma il protagonista non lo sarà fino allo spiegone da parte di terzi - e verrebbe voglia di urlare allo schermo. La sensazione di trovarsi di fronte a personaggi che, a convenienza imposta dalla sceneggiatura, sfruttino intelligenza e poteri tecnomagici è forte. È difficile conservare la propria sospensione dell’incredulità.
L’imposizione tecnomagica delle mani
Non è raro, leggendo del film, imbattersi in pareri positivi che si concentrano sul worldbuilding, a conti fatti il punto focale (e più riuscito), eppure quest’ultimo riflette la confusione generale che permea il prodotto. Se da un lato è lodevole l’iniziativa di immaginare un mondo in cui umani e IA confliggono e convivono (i Simulant, prossimo passo evolutivo?), dall’altro si può notare che il film faccia fatica a ipotizzare esseri senzienti che si allontanino dalla nostra natura pulsionale e dai nostri mezzi, in un mix di tradizione e tecnologia.
I robo-monaci di The Creator
Per questo, più volte, si vedono intelligenze artificiali provare emozioni (perché? sono reali o simulate?) e fruire di pornografia, forse nel tentativo - malriuscito - di accorciare le distanze tra l’umano e l’artificiale. Il film è quindi troppo ancorato al contemporaneo, convinto di poter dire qualcosa sulle preoccupazioni di oggi, ma che si esaurisce appena approda a un possibile domani. Grande è la confusione sotto il cielo, eppure la situazione non è eccellente. Al netto di elementi positivi, tra cui la fotografia di Fraser, vero elemento di continuità tra il precedente Rogue One e questo, l’operazione di worldbuilding non riesce mai ad andare oltre la patina del production design. Le idee ci sono, ma alla fine forse sarebbe stato più suggestivo fruire di un documentario all’interno di questo mondo, che potesse fare sfoggio del buon lavoro immaginifico. O, pad alla mano, esplorarne liberamente i luoghi. Proprio come si disse di Avatar.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta