Regia di Gareth Edwards vedi scheda film
Gareth Edwards si è rivelato uno dei migliori registi di genere fantascientifico del XXI Secolo insieme a pochi altri suoi illustri colleghi come Duncan Jones, Neill Blomkamp, James Gunn e Denis Villeneuve. La sua autorialità nel genere sci-fi nasce dal suo estro artistico e visivo finalizzato alla costruzione di storie impregnate da un peculiare sguardo sull’essere umano nella sua costante relazione con l’ambiente che lo circonda, quest’ultimo spesso ostile o di difficile comprensione ad un primo sguardo rapido e superficiale, che metterà così a dura prova i protagonisti edwardsiani, quasi sempre gente comune, nel loro viaggio di formazione.
Alfiere di una fantascienza autoriale e politica, il giovane britannico, inizialmente esperto di effetti speciali e specializzato in documentari, ha iniziato la sua carriera cinematografica nel 2010 con un’opera indipendente a basso costo (budget 500 mila dollari) chiamata Monsters, incentrata su un uomo e una donna americani intenti a passare il confine USA-Messico dalla parte del paese latinoamericano. Il problema è che devono attraversare anche una vasta zona in quarantena colonizzata da giganti alieni polipoidi, che mettono a dura prova le forze armate americane e messicane intenzionate a rimuoverli dal territorio, collezionando nel corso degli anni sempre più insuccessi. La bellezza di questa opera prima sospesa, al netto di tutte le sue acerbità, tra un road movie e un thriller fantascientifico, è il sapiente utilizzo del mezzo tecnico-registico di Gareth Edwards nel lavorare in sottrazione nella messa in scena per via delle risorse limitate, ma che è anche coerente con la drammaturgia stessa del film, dato che gli alieni vengono mostrati solo in rari casi per metterli sullo sfondo e risaltare così meglio le vicende umane. Monsters, infatti, mostra tutta la paranoia autodistruttiva delle forze militari dello stato americano e messicano, in quanto l’essere umano non concepisce un mondo in cui più popoli possano coesistere eterogeneamente e pacificamente (da qui l’innalzamento del muro tra Messico e Stati Uniti), figuriamoci convivere con un’altra forma di vita senziente che, come ogni essere vivente del regno animale, va dominato. In un mondo di muri e con pochi ponti, il regista riflette questa condizione del mondo nell’interiorità di due persone apparentemente diverse nel carattere, ma che si ritroveranno sempre più affini nel loro viaggio di formazione legato dal filo rosso del destino, fino ad innamorarsi completamente quando realizzano, poi, che le stesse creature aliene non sono affatto minacciose, ma esseri senzienti pacifici che si nutrono di elettricità per sopravvivere. Gareth Edwards, col mezzo macguffin del monster movie, riflette così sulla società umana e sull’odio e l’amore che essa può generare nel suo ambiente circostante, prediligendo la strada dell’empatia, della comprensione, della conoscenza e, infine, quella dell’amore nella sua accezione più universale. Per superare e sconfiggere le barbarie dei mondi crepuscolari e futuristici edwardsiani, i suoi protagonisti dovranno affidarsi a queste qualità indistintamente umane per riportare un equilibrio in sé stessi e, eventualmente, nell’ecosistema che li circondano popolato da esseri umani e altre forme di vita. In Monsters, infatti, la lenta costruzione di un ponte emotivo tra Samantha e Andrew viene sublimata dal rituale romantico tra i due alieni polipoidi (curati digitalmente dallo stesso Edwards), che sanciscono poeticamente la possibilità di un nuovo equilibrio naturale e umano, senza l’uso della violenza e della guerra, quest’ultime figlie di un’ignoranza autodistruttiva a cui l’essere umano dovrà sempre astenersi per preservare l’integrità del suo stesso pianeta.
La poetica pacifista di Edwards ritorna nuovamente centrale nel suo sguardo antropico sulla fantascienza nel momento in cui viene chiamato a dirigere su commissione Godzilla (2014). Il regista britannico, pur entrando come un “mercenario” assoldato da Hollywood per far partire il noto Monster Verse della Warner, riesce comunque a conservare il suo peculiare sguardo sulla fantascienza forgiato con l’esperienza in Monsters, trasferendo così tutta la sua anima indipendente in un blockbuster da 160 milioni di dollari, che poteva facilmente deragliare in un monster movie fracassone senza arte né parte. La particolarità del film risiede quindi nel coraggio della messa in scena di Edwards (la sceneggiatura invece è delegata a Max Borenstein), lavorando in sottrazione come aveva fatto in Monsters per restituire un Godzilla, nei primi due atti, ad altezza d’uomo e sempre in penombra per sottolineare la natura pericolosa e possente della creatura leggendaria, imperscrutabile alla vista mortale dell’essere umano. In linea con lo sguardo antropico del regista, però, sono nuovamente i personaggi umani a risaltare in una vicenda che poteva benissimo vedere il mostrone protagonista assoluto, ma che Edwards, invece, riesce intelligentemente a metterlo sullo sfondo fino al terzo atto, per riflettere un’altra volta sulla natura folle e distruttiva dell’essere umano incarnata dall’esercito americano nel contenere la titanica creatura. Ed è ancora una volta la conoscenza, la comprensione profonda della realtà e la scientificità empatica degli scienziati ad evitare il disastro annunciato di un’umanità intenta a dominare tutto ciò che non conosce, lasciando così campo libero a Madre Natura di fare il suo corso, ossia Godzilla, che aiutato indirettamente dagli scienziati e militari finalmente ravveduti, riesce a riportare l’equilibrio sulla terra sconfiggendo la razza dei M.U.T.O. Visivamente Edwards riesce così a confezionare un blockbuster visivamente accattivante – meravigliosa la scena dei fumogeni rossi dei militari che scendono giù dall’aereo verso la testa di Godzilla – e affine alla sua poetica originatasi in Monsters, in cui un’altra volta sfrutta la figura del mostro per riflettere, in realtà, sulla natura umana nell’affrontare i propri conflitti sociopolitici e i cataclismi ambientali che affliggono il nostro pianeta. Quest’ultimi vengono incarnati dallo scontro titanico dei kaij? messo in scena divinamente da Edwards, soprattutto nel terzo atto, in cui la fotografia cupissima e le botte da orbi tra Godzilla e i M.U.T.O. regalano momenti di puro terrore e tensione sia ad altezza d’uomo, sia nelle riprese aeree che catturano l’incredibile forza di Madre Natura nel riequilibrare sé stessa.
Dopo aver diretto il miglior capitolo del Monster Verse per forma e sostanza, Edwards decide nuovamente di tuffarsi in un altro franchise fantascientifico come “regista operaio”, ossia quello di Star Wars, una saga che sin da bambino amava, concretizzando così un suo sogno a lungo agognato sin da quando aveva deciso di voler fare il regista. Seppur anche stavolta nel lavoro su commissione non figura come sceneggiatore, Edwards viene coinvolto più attivamente dallo sceneggiatore Chris Weitz (quest’ultimo a sua volta coinvolto da Edwards in The Creator) nella delineazione della storia, realizzando uno dei finali più coraggiosi e inusuali della saga con l’avallo estremamente favorevole della Disney. Il primo spin-off di Star Wars, nonostante sia partito come un progetto secondario e abbastanza azzardato su carta data la mancanza della spettacolarità del mito Jedi-Sith, grazie alla solida mano del regista britannico diviene il miglior film della saga dai tempi de Il Ritorno dello Jedi, in cui per la prima volta ci si focalizza sulle vicende di uomini comuni contro un pericolo incombente ed estremamente letale. Edwards, un’altra volta, riesce ad insinuarsi egregiamente in un franchise, che stavolta ama molto, per declinare la propria poetica maturata in Monsters e Godzilla rispettando comunque il mito del suo idolo George Lucas, che visitò pure il set insieme a Peter Jackson, quest’ultimo presente proprio durante le riprese della famosa scena horror con protagonista Darth Vader. Al di là del fanservice e della voglia della Lucasfilm/Disney di lucrare sulla sua gallina dalle uova d’oro riportando il più iconico villain della storia del cinema sul grande schermo, la scena in sé per crudezza, intensità delle interpretazioni delle comparse ribelli e pura messa in scena tra spada laser sguainata e uso della Forza, chiude divinamente un grande racconto umano e catartico nel mostrare le brutalità di una guerra. Edwards, infatti, accetta di dirigere il progetto proprio per via di questo nuovo sguardo sul mito starwarsiano, in cui il suo amore per la saga può conciliarsi perfettamente alla sua poetica pacifista e antropica con l’intento di veicolare un forte messaggio sociopolitico. Ed ecco che gli apparati militari statunitensi si trasformano nell’Impero Galattico intento ad usare la sua potentissima Morte Nera, mentre i suoi protagonisti umani vengono incarnati dai ribelli, in primis Jyn Erso, la classica protagonista edwardsiana che lentamente comincia a conoscere meglio il contesto ambientale in cui si muove, riprendendo inoltre la tematica del viaggio tanto cara a Edwards in Monsters, che è un elemento fondativo e necessario per crescere interiormente e riportare così l’equilibrio nel contesto sociopolitico in cui si nasce. Dalla terra ci si sposta quindi nella galassia lontana lontana, dove il regista britannico pone uno splendido controcampo alle gesta eroiche e leggendarie di Jedi e Sith, nella quale si mostra finalmente la sofferenza e la fatica della gente comune, tra cui gli stessi ribelli (in questo caso mai così divisi in fazioni interne), di fronte all’oppressione totalitaria dell’Impero Galattico. Non è un caso che Rogue One: A Star Wars Story sia il capitolo più crudo e feroce all’interno della saga, dato che rappresenta un’interessante anomalia mai più ripresentata in Star Wars col fallimento del progetto “spin-off” della Lucasfilm, in cui all’epoca si voleva ancora sperimentare uno sguardo più maturo e adulto sulla saga, lontano dallo sguardo più fanciullesco e fiabesco del suo creatore. La fantascienza sociopolitica di Edwards si trova così sinergicamente unita a questa particolare sperimentazione dei dirigenti Disney, dando il giusto spazio a scenari di guerriglia urbana nel pianeta di Jedha, che non possono non ricordare gli scenari di guerra del Medio Oriente invasi e distrutti dal militarismo USA, senza contare la forza esplosiva della Morte Nera ricondotta alla pericolosa bomba atomica e all’idrogeno che non fa sconti a nessuno, neppure ai personaggi principali tutti brutalmente ammazzati. Edwards ispirandosi ai più famosi film di guerra antimilitaristi (Quella sporca dozzina) e al meglio della fantascienza anni ottanta e settanta, regala un affresco umano, catartico, commovente e orribilmente onesto sulle tragedie della guerra attraverso il filtro del mito di Star Wars, suggellando la vittoria e il grande coraggio dei ribelli attraverso l’indiscutibile forza di un’amore padre e figlia indistruttibile e indissolubile, anche di fronte alla furia distruttiva e annichilatrice dell’Impero Galattico con la sua super arma. Da questo assunto, il campo lungo in cui si mostra l’abbraccio di un amore appena sbocciato tra Jyn Erso e Cassian Andor – con l’esplosione imminente del pianeta per mano della Morte Nera sullo sfondo – è una delle vette poetiche e drammaturgiche più alte mai raggiunte dalla maturità registica dell’ex effettista britannico, senza contare l’incredibile messa in scena strategica di tutte le battaglie terrestri, aeree e spaziali ricolme di grande pathos e drammaticità. Con Rogue One Edwards firma sorprendentemente il suo film migliore in ogni singolo aspetto, che dimostra come un’opera su commissione o commerciale possa essere superiore ad una puramente autoriale, soprattutto se c’è una minima influenza di un regista che ha a cuore il progetto con una sapiente mano registica supportata da una buona scrittura, la quale ha realizzato, di fatto, uno dei migliori capitoli di Star Wars dai tempi della trilogia originale.
Dopo ben 7 anni dal suo successo miliardario e dopo aver “marchettato” con stile dalla fine della sua opera prima, Edwards decide finalmente di realizzare una pellicola totalmente personale e originale dopo Monsters, ossia The Creator. Il film fantascientifico scritto assieme allo sceneggiatore di Rogue One Chris Weitz, narra di un mondo futuristico in cui gli esseri umani e le I.A. sono in guerra dopo un’esplosione atomica avvenuta nel 2055 a Los Angeles, di cui vengono incolpate le intelligenze artificiali, ora il nemico numero uno dell’Occidente guidato dagli USA che le ha bandite. Nel conflitto che imperversa da anni tra umani e robot si muove il protagonista Joshua Taylor, un agente sottocopertura che viene infiltrato dal governo americano nella Nuova Asia – un nuova nazione sorta nell’Asia sud-orientale in cui convivono umani e I.A. – con l’obiettivo di prendere la “super arma” che stanno sviluppando le intelligenze artificiali per vincere una volta per tutte la guerra contro gli Stati Uniti.
L’immaginario fantascientifico che dipinge Gareth Edwards in questa sua ultima opera colpisce innanzitutto sul piano visivo, in cui si vede che dopo l’esperienza in Rogue One il regista ormai è totalmente a suo agio nel regalare campi lunghi(ssimi) e totali da togliere il fiato, soprattutto se “dipinti” ottimamente dalla fotografia luminosa del suo fidato Greig Fraser (Rogue One, Dune), in cui si valorizza ogni singolo aspetto dell’ambiente del sud-est asiatico (Thailandia) dove si sono svolte le riprese per contenere i costi di produzione attestati sugli 80 milioni di dollari. Grazie alla sua passata esperienza come effettista, Edwards riesce quindi a comprimere i costi come fece in Monsters per evitare la costruzione di costosi set in green screen e in stagecraft, sfruttando così la bellezza naturale intrinseca delle location per poi modificarle, se necessario, minuziosamente in post produzione con gli effetti visivi (VFX). Con questo metodo di lavoro appreso facendosi le ossa nel cinema indipendente e nei documentari, il regista britannico riesce così a conferire grande palpabilità e autenticità al suo blockbuster d’autore, riaffermando in questo senso il suo amore sconfinato per il cinema fantascientifico più analogico e meno digitale degli anni ‘70, ‘80 e anche ‘90 che l’ha cresciuto. Inoltre, le scene che si svolgono negli ambienti rurali della Nuova Asia servono al regista per mostrare la splendida connessione naturale e tecnologica tra le I.A. impiantate nel territorio e la popolazione autoctona, in cui la regia e la fotografia edwardsiana – quest’ultima finalmente lucente dopo l’esperienza con Rogue One – riesce a restituire magnificamente tutta l’immensità, l’antichità, la religiosità e la dimensione paradisiaca della Nuova Asia immersa nel suo tecno-buddhismo tra templi, montagne e campi coltivati. Anche nelle scene notturne, Edwards riesce comunque ad esaltare i vasti ambienti rurali del neonato tecno-stato che, infatti, ricorda molto l’atmosfera vietnamita di Apocalypse Now. Non è casuale che il regista compia questo ottimo parallelismo visivo e drammaturgico tra il suo film e il capolavoro di Coppola, infatti stavolta non sono i vietcong ad essere massacrati dagli americani nella giungla vietnamita, ma le povere I.A. che resistono all’imperialismo a stelle e strisce con qualsiasi mezzo possibile. La società tecno-buddhista viene dunque esplorata anche nel suo nucleo interno, soprattutto nelle scene notturne, quest’ultime sempre protagoniste di scene belliche o di estremo pericolo e tensione per il protagonista errante accompagnato – e protetto – dalla baby Buddha I.A. Alphie, per non parlare di cocenti rivelazioni che sconvolgono la percezione di Joshua Taylor come lo scoprire la vera identità di Nirmata, paragonabile al disvelamento del mistero sul colonnello Kurtz da parte del capitano Benjamin L. Willard in Apocalypse Now. ll regista, addentrandosi nella parte più “civilizzata” della Nuova Asia, mette in scena laboratori scientifici e metropoli della Nuova Asia citando espressamente tutta l’estetica cyberpunk a partire da Blade Runner e Akira, per poi spostarsi alla fantascienza robotica di Terminator nella costruzione dell’aspetto delle I.A. con una faccia umana, fino ad approdare nuovamente in Star Wars nel costruire l’estetica dei robot interamente meccanici e le astronavi militari degli USA, tra cui la letale stazione militare satellitare NOMAD che non può non ricordare la Morte Nera. The Creator è quindi un compendio di svariate influenze fantascientifiche (e non) del cinema del passato, eppure nelle sue influenze derivative il lungometraggio di Edwards costruisce qualcosa di incredibilmente fresco e nuovo nel suo essere un ponte tra il passato e il presente, risultando inoltre estremamente contemporaneo nel trattare l’annoso tema delle I.A.
La genialità della storia scritta da Gareth Edwards e Chris Weitz risiede quindi nella sua ibridazione tra antichità e modernità, tra analogico e digitale, tra umano e inumano, tra buddhismo e intelligenza artificiale che è alla base della drammaturgia dell’ultima fatica girata divinamente da Edwards, che riporta finalmente una fantascienza originale, sociopolitica, adulta e realmente impegnata nelle sale, con l’intento ultimo di far riflettere il suo pubblico. The Creator, pur non essendo esente da difetti come alcune forzature narrative e passaggi leggermente macchinosi nel dipanare il racconto, riesce a costruire un discorso filosofico intrigante e profondo sull’ossimoro che costituisce il DNA del nuovo stato nazione governato pacificamente dalle I.A. Da una parte le intelligenze artificiali hanno evoluto tecnologicamente la società del sud-est asiatico costruendo metropoli immense e infrastrutture molto efficienti, dall’altra le stesse I.A. hanno assimilato la religione buddhista degli autoctoni fino a venerare il “Dio Nirmata”, ossia “l’architetto” dello sviluppo tecnologico accelerato delle I.A. nella Nuova Asia e creatore della “super arma” che porrà fine al conflitto tra esseri umani e intelligenze artificiali. Il film si apre, infatti, citando l’origine del termine “nirmata” (????????) che in sanscrito – lingua indoeuropea antichissima e l’equivalente del nostro latino e greco antico parlata ormai da pochissime persone in India e Nepal – significa letteralmente “creatore”, “costruttore”, dunque usato nell’antichità per descrivere un “creatore divino” equiparabile – con le giuste cautele – alla concezione cristiana di Dio/Signore/Creatore che abbiamo in Occidente. Da questo assunto si origina il titolo del film “The Creator”, che riflette sul concetto di creazione nella religione e filosofia buddhista declinate in un contesto fantascientifico, che può ricordare vagamente la mitologia di Star Wars e Matrix, ma Edwards pone la forza concettuale buddhista di “creatore/nirmata” in una splendida storia d’amore intimista e familiare padre-figlia e marito-moglie come spesso accade nel suo cinema, specialmente in Rogue One. La forza universale dell’amore, in tutta la filmografia edwardsiana, si intreccia così fatalmente con i conflitti sociopolitici e geopolitici in cui sono immersi i protagonisti edwardsiani, che nell’affrontare le barbarie di un mondo sempre sull’orlo dell’autodistruzione per via della cieca e bieca ignoranza e intolleranza insita nella natura umana, finiscono col confrontarsi con la brutalità della violenza generata dalla guerra, che tutt’ora dilania il nostro pianeta.
L’antispecismo di Edwards in questo film raggiunge l’apice (in controtendenza con la recente demonizzazione delle I.A. da parte anche degli scioperanti sceneggiatori e attori di Hollywood), tant’è che il suo protagonista una volta compresa la reale entità del conflitto tra intelligenze artificiali ed esseri umani, finisce col combattere a fianco delle prime in virtù del suo amore per la moglie defunta Maya, una cittadina della Nuova Asia e genitrice della “super arma” di Nirmata (il defunto padre della moglie che ne eredita il ruolo). L’aspetto estremamente interessante dell’ultimo lungometraggio di Edwards è quindi la correlazione laica, e al tempo stesso spirituale, tra la reincarnazione buddhista e il transumanesimo tipico del genere fantascientifico veicolata attraverso il sentimento universale dell’amore. È infatti Maya ad imprimere segretamente il DNA della figlia ancora in grembo, avuta con Joshua, nello sviluppo dell’I.A. “Alphie“, permettendo così alla religione buddhista di avverare concretamente e scientificamente l’ascesa e la reincarnazione di un nuovo Buddha. La curiosa commistione tra una religione antichissima nata millenni fa e il futuro prossimo del nostro avanzamento tecnologico, rappresenta per il regista quell’anello di congiunzione finale ed evolutivo necessario per pacificare la terra. Difatti, le I.A., pur essendo state accusate erroneamente e ingiustamente dagli Stati Uniti di aver provocato l’esplosione nucleare a Los Angeles, non vogliono assolutamente assecondare nessun sentimento di vendetta e di prevaricazione nei confronti del genere umano, in linea con la filosofia buddhista del sud-est asiatico perfettamente assimilata. Il loro scopo è soltanto quello di usare la creazione del tecno-Buddha Alphie per terminare una volta per tutte il conflitto e sviluppare pacificamente il loro nuovo stato, in perfetta simbiosi con l’ecosistema circostante e la popolazione autoctona cittadina e monastica, che preferisce nettamente la governance delle I.A. ai soprusi del primo mondo e dei governi autoritari asiatici precedenti. Sempre in linea con la religione e filosofia buddhista, il cambio di bandiera/fazione del protagonista umano sottocopertura Joshua Taylor non è altro che l’accettazione del trasferimento del karman, ossia l’eredità delle azioni compiute da una vita precedente (in questo caso sua moglie Maya), sulle sue spalle accollandosi il destino delle I.A. e aiutando di conseguenza Alphie, di fatto un simulacro della sua figlia defunta e la chiave per raggiungere la “pace eterna” agognata dalle I.A.
L’elemento del viaggio ritorna quindi nuovamente centrale in The Creator, proprio come nelle precedenti opere del regista britannico, dove in questo caso è l’estinzione del debito karmico l’obiettivo da raggiungere per riportare finalmente un equilibrio sia interiore al protagonista dilaniato dal lutto, sia nel mondo circostante segnato dalla guerra e dalla morte. Tutto ciò non può che ricordare molto la struttura narrativa di Rogue One (non a caso vi è lo stesso sceneggiatore), in cui ci sono dei ribelli (le I.A.) contro un Impero Galattico (lo strapotere militare USA) nella quale i primi devono abbattere assolutamente NOMAD (la Morte Nera), una stazione satellitare spaziale umana in grado di scansionare qualsiasi territorio geografico e di distruggere per sempre tutte le I.A. della Nuova Asia. Eppure in questa forte similitudine (il finale sembra quasi una rilettura più intimista dell’ultima battaglia fisica e interiore de Il Ritorno dello Jedi) vi sono notevoli differenze, a partire dalla dissertazione filosofica sull’identità sociopolitica delle I.A. fino alla contrapposizione a blocchi tra l’Occidente imperialista e suprematista a guida USA e la Nuova Asia guidata dal governo illuminato di I.A. e popolazione locale. Gli spunti di riflessione sono dunque triplicati rispetto a Rogue One (pur quest’ultimo avendo una sceneggiatura migliore), in cui Edwards imbastisce un worldbuilding estremamente stratificato nella sua imperfezione, con l’obiettivo di riflettere non solo sull’esistenzialismo delle intelligenze artificiali, ma anche della loro implicazione nella nuova guerra fredda tra Cina e Stati Uniti. Sui secondi il regista è particolarmente critico sin dal suo primo film Monsters, in cui il regista condanna da sempre la loro prepotenza militarista e la voglia malsana di dominare qualsiasi forza naturale che siano alieni, mostri e, infine, robot, quest’ultimi intelligenze artificiali senzienti che in The Creator non assumono una natura maligna come in Matrix. A differenza del futuro distopico dominato dalle I.A. originatosi dagli eventi di Animatrix con la fondazione della nazione delle macchine “Zero One” in Iraq (la culla della civiltà), le I.A. di The Creator non vogliono altro che vivere in pace insieme agli umani, seguendo infatti i nuovi principi buddhisti appresi nell’integrazione con gli autoctoni dell’Indocina, che spingono sempre verso l’armonia sociale e ambientale. I reietti sono così le I.A. e non più gli umani schiavizzati da quest’ultime, in cui è chiaro come il regista voglia anche riflettere sulla contrapposizione anche tra primo mondo e terzo mondo, in cui il primo vede nel secondo una minaccia pronta ad invaderlo e dominarlo, quando in realtà vorrebbe soltanto coesistere in pace con l’Occidente e costruire un mondo migliore (multipolare), in cui i rapporti di forza sono equamente distribuiti, proprio come vuole l’allegorica Nuova Asia (i BRICS?). Il rischio, quasi sempre, sta dalla parte del più forte e dell’egemonia statunitense, in cui gli Stati Uniti sono sempre più paranoici che un giorno possano perdere la loro supremazia militare sul mondo, in quanto incapaci di abbandonare il loro atavico delirio di onnipotenza sul prossimo in qualsiasi campo anche al di fuori dal settore militare. Ed è infatti dalla corsa alle armi che nasce l’installazione della temibile stazione orbitale NOMAD, quest’ultima programmata per eliminare chirurgicamente qualsiasi nemico sul campo di battaglia, che non può non far riflettere sulle terribili guerre sporche dell’America in Medio Oriente coi droni con l’obbiettivo di dividere sempre di più il terzo mondo.
Il catartico sacrificio finale dell’agente Joshua Taylor (girato nello spazio divinamente al limite del cardiopalma), in cui finalmente estingue il suo debito karmico rincontrando per l’ultima volta una temporanea reincarnazione di sua moglie Maya, non fa che rafforzare il grande messaggio sociopolitico e monito di The Creator all’umanità: un inno alla pace tra buddhismo e intelligenza artificiale il quale, attraverso una tragica storia d’amore, afferma come sia possibile superare le differenze culturali e addirittura naturali per costruire un mondo migliore ricolmo di pace e speranza. Il primissimo piano della dolce e innocente Alphie che sorride di gioia di fronte alla vittoria delle I.A. nella distruzione di NOMAD e del sacrificio dei suoi genitori putativi, racchiude splendidamente la tesi pacifista e spirituale del tecno-buddhismo di Gareth Edwards, quest’ultimo finalmente libero di esprimersi autorialmente dopo due ottime marchette, che però non consentivano ad una sua piena sbocciatura come artista. Vedendo finalmente The Creator, si può affermare con certezza come l’ex documentarista britannico sia una delle migliori promesse sci-fi insieme ai registi precedentemente elencati, uno di quei pochi esteti sci-fi rimasti, insieme ai soliti nomi dei grandi maestri come Ridley Scott e Steven Spielberg, capace ancora di realizzare un cinema commerciale autoriale che sappia coniugare lo spettacolo all’intelletto. Checché ne dicano i detrattori che sparano insufficienze gratuite su The Creator, l’ultima fatica di Edwards è un faro di speranza in un cinema hollywoodiano ormai privo di idee e ripiegato sui soliti marchi da sfruttare, agendo così come un freddo algoritmo nel confezionare “film-marchio” e “film-franchise” uno più brutto dell’altro senza arte né parte, quelli sì che si possono definire “film che sembrano scritti da un algoritmo”. The Creator è l’antitesi di tutte codeste recenti commercialate propinate da Hollywood negli ultimi anni. All’interno dell’ultima fatica di Edwards si muovono sicuramente delle intelligenze artificiali, ma quest’ultime sono umanizzate, scritte e messe in scena da veri artisti, a differenza delle mille Barbie che sembrano partorite da un algoritmo schiavo del freddo marketing, che a quanto pare piace molto alla massa, la quale ha deciso di premiare l’ennesima commercialata facendo floppare uno dei più bei film di fantascienza degli ultimi 10 anni.
Voto 8.5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta