Regia di Oz Perkins vedi scheda film
L’incipit, va detto subito, è superiore al resto del film e alla sua conclusione. La tensione che in pochi secondi si accumula anche nello spettatore più navigato quando la bambina si avvicina a una persona che subito intuiamo come “ambigua”, nel senso che non sappiamo identificare fino in fondo non “chi è” ma “cos’è”, e quindi presenza perturbante, è una tensione reale, tanto emotiva come sensibile grazie a una costruzione del prologo magistrale, dalle riprese al montaggio finale.
Dopodiché il film prende le sembianze di un poliziesco dallo spirito thrilling che lo avvicina a Il silenzio degli innocenti (Demme, 1991) e a Zodiac (Fincher, 2007). Il primo più per la sinossi generale (la protagonista, con turbe passate, dall’acume leggendario, qui pure riconosciuta sensitiva, che insegue un fantomatico e inquietante serial-killer), il secondo per le atmosfere che sa creare grazie alle inquadrature statiche, l’essenzialità della messa in scena e certi momenti ispirati (anche se mai si raggiungeranno le vette e le vertigini della famosa scena della cantina).
Oz Perkins – i cui i titoli precedenti ho apprezzato, ma fino ad un certo punto, sempre manchevoli di qualcosa nonostante la brillante idea originale e una spiccata dote registica – non riesce a mio parere a trasformare questa ennesima idea originale – forse la più originale ed entusiastica – in un capolavoro cinematografico come quelli precedentemente scomodati. Forse non basta essere figli di Anthony ed essere cresciuti, come si dice in giro, sul set di Psycho (Hitchcock, 1960) per essere dei validi registi horror e avere quel fuoco artistico tale per cui. Sicuramente Perkins ha un dono particolare perché non confeziona mai un film banale. Ha la visionarietà giusta per suscitare emozioni e in diversi casi perturbare.
In Longlegs il suo sguardo è più perturbante che in Gretel & Hansel (2020), fiaba horror riletta con i codici più del postmoderno e del grottesco che del fiabesco classico, senza gran nerbo, ma con grandi ambientazioni e figurazioni del male azzeccate. Rispetto a February (2015) è ovviamente anni luce più avanti, ma in questo iniziatico teen horror di pochissime pretese già si vede un gusto per l’ambientazione e per il visibile rispetto al narrativo che in Longlegs è maturato fino a rendere i due elementi, storia e discorso, quasi complementari. Mentre I Am the Pretty Thing That Lives in the House (2016), gotico quanto freddo e distante, risulta essere un buon tentativo di manierismo abbastanza riuscito, Longlegs non imita né saccheggia i film che si stanno regolarmente scomodando per giustificarne il consenso, ma al tempo stesso non è in grado di intervenire sulla materia narrativa con lo stesso senso immaginifico dei due titoli scomodati. Longlegs mi risulta irrisolto, esattamente come It Follows (Mitchell, 2014) di cui si è sempre detto tanto e bene – e non a caso oltre alla stessa protagonista si ripete il tema contemporaneo dell’esistenza fisica del Male, la sua figurazione, la sua trasferibilità, contaminazione e finanche traducibilità – e che allo stesso modo non riesce, nonostante le lodi di tanta critica, a insinuarsi nell’immaginario orrorifico come sanno solitamente fare gli horror più pragmatici, più corporei, viscerali, materici.
Decontestualizzato dalla filmografia horror che lo precede è un buon thriller che vira drasticamente verso l’horror regalandoci momenti di alta tensione, anticipati da scene di calma apparente dove il perturbante è più nel filmico che nel profilmico, dove l’angoscia è palpabile, ma implode quando il film gira su se stesso e non riesce, nella sua pacata narrazione, nel suo silenzioso incedere, a insinuarsi davvero nell’intimo dello spettatore. Se la protagonista, Maika Malone, grazie alla oggettificazione del proprio personaggio, freddo, distaccato, asociale, apatico, piatto e spersonalizzato, è visibilmente insinuata dal killer soprannaturale che massacra famiglie intere senza neppure entrare nelle loro case, lo spettatore no, non ne è minimamente sopraffatto, sia perché dopo l’ormai antologico prologo il personaggio di Longlegs non appare regolarmente e non concentra su di sé gli interessi narrativi della storia se non indirettamente, sia perché l’ineffabile natura del killer e delle sue mattanze è distante dall’iconografia del genere e non riesce a scalfire l’immaginario, esattamente come dieci anni prima non ci riusciva It Follows.
Inutile girarci intorno: nei così chiamati elevated horror o prestige horror non ci sono e non credo ci saranno mai né la visceralità, né la carnalità e quindi né la perturbazione né l’esperienza terrorifica sensibile – chiamiamola carnasciale, dove carne e la festa della carne prima dei digiuni e dei fioretti, è la fortissima simbologia materica dell’horror – che non solo fondano il genere, ma lo rendono universale.
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