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The End We Start From

Regia di Mahalia Belo vedi scheda film

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La recensione su The End We Start From

di mck
8 stelle

“It could be a disaster.”

 

 

Vien giù che Dio la manda tutta d’un botto, dopo che da tempo immemore manco una goccia, tanto che persino gl’indispensabili lombrichi muoiono asfissiati annegando lentamente (non sono animali dotati di un sistema polmonare vero e proprio, ma respirano scambiando anidride carbonica con ossigeno direttamente attraverso l’epidermide umida e vischiosa cosparsa di capillari sottocuticolari). E questa è solo una delle cose (archiviata nella sezione “imprecisioni → esagerazioni”) che del film mi hanno leggermente infastidito, se non - financo, addirittura, trasmodando - irritato (perché no, un lombrico non lo ammazzi così facilmente, poverino, in due overdosiche dita d’acqua che oramai troppo tardi scorre sui colletti radicali delle piante di pomodoro sofferenti di marciume apicale per via - paradossalmente - della precedentemente lunga siccità: ben più semplice sarebbe, al contrario, esporlo costretto all’aria senza riparo ctonio per sole poche ore). Un’altra (archiviata nella sezione “scorciatoie” con, ancora, un “eccesso di dismisura”), concesso il fatto che lesemplare di...

 

 

...poiana di Harris (Parabuteo unicinctus, accipitride delle Americhe) non sia un erratico accidentale, ma un animale sfuggito al controllo di un falconiere anche lui travolto dal disastro, è senz’altro l’abuso dissennato, ma consapevole, dei METAFORONI (che, come dice il nome, sono più grandi, grossi e ingombranti delle già ben difficili da maneggiare e gestire metafore: il livello dell’acqua nella vasca da bagno che sale, l’improvvisa alluvione prolungata provocata dagli eccezionali riversamenti atmosferici s’un terreno impermeabilizzato dall’aridità e dal cemento/asfalto, la rottura delle acque amniotiche, il catartico bagno nel mare isolano del nord, il ripristino temporaneo del paradigmatico zero idrometrico storico e il “pedissequamente”, ma con sincera onestà intellettuale, ricalcomaggiante del Malick...

 

 

...post-“Badlands” e “Days of Heaven”, anche se proprio quelle due opere comparivano in una lista di un paio d’anni fa compilata dalla regista per Sight & Sound sui 10 migliori film di tutti i tempi, che includeva anche un molto più figurativamente pertinente al caso in questione “Morvern Callar” di Lynne Ramsay). Detto ciò, il film, fatta la tare a tali bazzecole, quisquilie e pinzillacchere di cui sopra, per il resto…

– a partire dal gran cast composto dalla qui one person show Jodie Comer (Killing Eve”, “the Last Duel”, “Talking Heads: Her Big Chance”, Help, “Prima Facie”, “the BikeRiders” e la prossima “Big Swiss”), ch’è molto più classicamente metodica (non sempre colpisce duro e pienamente a segno, ma quando lo fa è sorprendentement’epifanica, e non cincischia, mai, a vuoto) di un assoluto e devastante talento naturale qual è Meryl Streep, ma che al contempo riesce a donare momenti di allucinato splendore e inopinata verità, affiancata dai picareschi compagni d’avventura Katherine Waterston, magnifica (“Night Moves”, “Inherent Vice”, “Queen of Earth”, “Alien: Covenant”, “Mid90s”, “the World to Come”, “the Third Day”), Joel Fry (“Game of Thrones”, “Requiem”, “In the Earth”), Mark Strong, come sempre molto bravo (“Kick-Ass”, “Tinker Tailor Soldier Spy”, “1917”, “TÁR”, “Nocebo”), Benedict Cumberbatch [che nel 2017 aveva co-pre-acquistato (com’è duso e d’uopo, a volte: e si pensi proprio a “Big Swiss”) i diritti del romanzo ancora non pubblicato] e Nina Sosanya [mentre l’adespota Zeb(ediah, dono di Dio), interpretato da una quindicina di neonati, è l’unico personaggio di cui lo spettatore conosce il nome, e pure il momento in cui gli viene consegnato], e proseguendo con la fotografia di Suzie Lavelle, il montaggio di Arttu Salmi, le scenografie di Laura Ellis Cricks e le ottime musiche di Anna Meredith

…funziona alla grande.

 


Il neonato, adagiato s’una copertina posta sull’erba alta d’una radura di fronte all’Arca, una casetta di legno immersa nel bosco, emette un gorgoglio velare.
I neuroni specchio agiscono d’impulso: i genitori si sorridono a vicenda.
Ma la madre è una cittadina (nel primario senso letterale del termine, con l’accezione rivolta alla metropoli e non allo stato-nazione), e se varie House sono sparse tra la Britannia e la Caledonia, è solo là, tra le acque oleosamente marce di Londra, la sua Home.

 


Con questo "The End We Start From", un lavoro a suo modo solar-punk, se pur abbastanza cupo, Mahalia Belo, co-prodotta da BBC, BFI (British Film Institute), the National Lottery, Hera, SunnyMarch (di Cumberbatch & C.) & altri, esordisce alla regìa sulla lunga distanza cinematografica [dopo aver diretto il film per la TV “Ellen”, i sei ep. della già citata limited-serie “Requiem” (uno dei pochi elementi di quel prodotto che contiene qualche elemento di valore) e i tre ep. della mini-serie “the Long Song”] mettendo in scena l’adattamento dell’omonimo romanzo di debutto di un lustro prima di Megan Hunter (“the Harpy”) ad opera di Alice Birch (“Lady Macbeth”, “the Wonder”, “Dead Ringers”) senza particolari guizzi, ma con una classicità particolarmente apprezzabile che non scade nell’inutilmente innocuo.

“It could be a disaster.”

* * * ½/¾7.25

 

 

Nota bene.
A tutti i neo-genitori: i figlioli che avete appena messo al mondo saranno governati in un prossimo futuro da questo figliolo qua, che sembra mentalmente svantaggiato anche se messo a confronto con gente tipo Franco Prodi (o il suo generico, Enrico "Chicco" Testa), Valerio Rossi Albertini (che, poverello, almeno ci prova, male, ma ci prova) e David Parenzo…

“Io dico che se noi riprendiamo i titoli dei giornali degli ultimi cinquant'anni, limitiamoci agli ultimi cinquant'anni, c'accorgiamo che ci sono tutta una serie di toni, di previsioni che poi sono state totalmente smentite sui fatti.” (Sic erat dictum, anno 2024 dopo Cristo.)

 

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