Regia di Alex Garland vedi scheda film
Regista abituato alla fantascienza, Garland si cimenta in Civil War con la distopia di un’America infranta, spaccata in una guerra civile senza vero senso e mai del tutto spiegata, avviata dalle iniziative di un Presidente spregiudicato che, a quanto si dice nel film, ha iniziato a smantellare l’FBI e altre strutture federali. Con uno stile estremamente realistico e anti retorico, che sembra rifarsi al miglior Stone di Salvador o al quasi coevo melò giornalistico di Sotto tiro (ma privati di qualsiasi residuo politico), Garland segue un gruppo di disillusi reporter di guerra che avanzano nel pericolo del territorio fratto degli Stati ormai disuniti, a guardare gruppi di assalitori e agguati sempre più sanguinari, fino all’apice dell’assedio alla Casa Bianca, non più luogo del potere politico, celebrato in tanti film o serie famose, come l’utopia democratica di West Wing, ma fortino dell’arroganza e della spregiudicatezza, quasi in una versione parossistica del sarcasmo (pseudo) repubblicano di Scandal.
Non importano poi tanto le ragioni dell’origine del male quanto i suoi effetti, la distruzione della democrazia e il trionfo del caos che, miglio dopo miglio, una vittima dopo l’altra, fagocita le istituzioni, con soldati dalla stessa uniforme in lotta luno contro l’altro, armati di ideologie senza idee e di confusione esistenziale che lascia spazio solo alla forza delle pallottole, alla guerra come ultima forma di comunicazione e sopraffazione. Ed è allora utopico pensare che i giornalisti e fotografi di guerra possano spiegare qualcosa, se non illustrare la morte, seguirne le tracce di sangue. Il gruppo di giornalisti attraversa l’America disfatta su una macchina malconcia, in un road movie senza speranza che esce in quello che poi sarebbe stato solo l’interregno democratico tra due presidenze Trump, e che estrapola le premesse di Capitol Hill in un incubo cinematografico che doveva essere un monito, quando invece l’elettorato è andato a certificare la realtà della minaccia e a preparare un presente assai incerto, dominato da fazioni e frazioni, da divisioni e cecità, da egoismi e intransigenze, da interessi e odi, in mezzo a grida efferate di vendetta e al caos quale unica certezza.
In quel gruppo disomogeneo di giornalisti, tra la giovane e acerba aspirante reporter e gli anziani affermati, c’è l’abisso della disillusione, la sofferenza della morte vista e vissuta da troppo vicino, in agguato a chiedere il conto, la temerarietà ingenua della neofita a contrasto e confronto con chi ha visto il male e sa di ritrovare il peggio. E il regista accompagna lo spettatore a fianco della ragazza, immedesimandosi nel suo sguardo ancora curioso, con la fiducia che il racconto della storia sia anche la verità, lasciandoci psicologicamente tumefatti e turbati a contemplare la vastità della disillusione. Non c’è più storia né verità, perché forse non c’è nemmeno più futuro, e un passato da ricostruire, senza ripeterne gli errori per evitarne gli immani e forse imminenti orrori.
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