Regia di Alex Garland vedi scheda film
In un (molto?) prossimo (e inquietante) futuro il Presidente degli Stati Uniti, al terzo (incostituzionale) mandato, ha accentrato i poteri sul Campidoglio e sciolto l’FBI acquisendo, di fatto, tratti dittatoriali che scatenano una guerra civile tra le forze lealiste al Governo e diverse fazioni ribelli, tra cui le Forze Occidentali, un’alleanza tra Texas e California, ormai prossime ad occupare la capitale e a ottenere quindi la resa del regime.
Di fatto sono queste le premesse di Civil War, nuova pellicola di Alex Garland, regista e sceneggiatore di Ex Machina, Annientamento e Men, prodotta da A24 (ormai un nome, una garanzia) e da DNA Films, casa di produzione britannica fondata da Duncan Kenworthy & Andrew Macdonald già dietro ai precedenti lavori di Garland, ed è di questo che racconta?
Dell’attuale situazione degli Stati Uniti e della conflittualità interna che si sta esacerbando dopo l’assalto a Capitol Hill e i processi contro Donald Trump, probabile (!) vincitore delle prossime elezioni?
Non è proprio così, perché Garland preferisce prenderne le distanze (mancanza di coraggio? Istinto di sopravvivenza? Ascetica illuminazione?) descrivendo il contesto politico del film, seppur con una presidenza sicuramente autoritaria, soltanto accennato, piuttosto generico, volutamente ambiguo.
E questo ovviamente deluderà moltissimo tutti quelli che da questa pellicola si aspettavano invece conferme, se non legittimazioni, al proprio pensiero politico, qualunque esso sia.
E a questo proposito (apro parentesi) consiglio la visione (o, nel caso, la riscoperta) di quel piccolo gioiellino che è La seconda guerra civile americana, film per HBO del 1997 firmato da uno dei registi più irriverenti e caustici della sua epoca, Joe Dante. Iconoclastico, sarcastico, grottesco, irriverente, spudoratamente impudente almeno quanto profetico, tutto quello che c’è da sapere (o capire) sugli “attuali” Stati Uniti (!) d’America è già tutta lì, in un film televisivo di più di 25 anni fa (chiusa parentesi).
Quindi di cosa parla, davvero, Civil War? Di guerra, del giornalismo, di fotografia?
Questi sono temi importanti su cui ruota attorno il film, il cui impatto varia a seconda della sensibilità dello spettatore, ma a parer mio parla soprattutto di oggettività, di obiettività e, forse, anche di coerenza e di come questo, ormai, non faccia più parte di questo mondo.
Civil War è una riflessione stratificata ma anche lucida (quanto, poi, dipende da quanto si è concordi o meno con tali opinioni) sul valore (e l’importanza) del raccontare, soprattutto per immagini (e quindi anche in campo cinematografico), ma con oggettività e realismo il nostro tempo, soprattutto in un contesto di opinioni troppo spesso polarizzate e fazioni sempre più estremizzate, e nel quale l’obiettività diventa sempre più un’utopia (quasi?) irraggiungibile.
Evitando di raccontare le cause del conflitto e la sua genesi, il suo contesto politico (chi e perché ha iniziato il conflitto, attribuendo quindi una responsabilità a questo o a quello, in modo da confermare/confutare le opinioni di questo o quello) ma concentrandosi piuttosto sulle conseguenze, Garland sembra cercare il facile consenso, magari in modo furbo e moralistico (o populistico), ma in realtà suggerisce semplicemente che la polarizzazione, sia in senso che nell’altro, sia semplicemente il più grande, vero pericolo della democrazia e che la guerra sia uno stato di violenza in cui è impossibile identificare davvero i buoni e i cattivi (ha ragione chi vince, ha torto chi perde. Punto).
Perché il significato di un’immagine, una foto (come di un discorso, un’idea, una frase) non viene data da chi l’ha realizzata ma da chi invece la guarda perché la responsabilità (politica, morale, civile?) di dare concretezza e verità (!) a quell’immagine è nostra, del pubblico, non loro.
Questa connessione con chi guarda (e decide) emerge sin da subito nel film, con la prima immagine sfocata, irriconoscibile, del presidente USA, che per qualcuno è ispirato a Trump e per altri invece a Biden, che si appresta a parlare in TV a una nazione spaccata.
A rendere l’immagine nitida, con un teleobiettivo, è la fotocamera di una fotoreporter, una giornalista in un albergo a New York, a miglia di distanza dall’evento (dalla realtà?).
Ma alla fine il punto è che chi immaginava di vedere Trump vedrà comunque Trump e chi pensava di vedere Biden vedrà invece Biden.
"Who are you? Who, who, who, who?"
Sebbene nasca infatti come scrittore e sceneggiatore, Alex Garland è un regista che ha sempre lavorato per immagini e la scelta di fornire così poche informazioni è anche perché affida la narrazione proprio alle immagini, anche sfruttando in maniera ambigua il linguaggio fotografico o di reportage giornalistico.
Infatti, Civil War più che un film di guerra è piuttosto un film sul (foto)giornalismo, ma la fotografia ha un limite: per sua natura mostra solo una porzione della storia, quella inquadrata dalla macchina fotografica e costretta nei suoi confini, ed è dettata da tutta una serie di scelte (soggettive) del fotografo che decide cosa lasciare fuori dall’inquadratura. Quindi chi guarda la fotografia è svantaggiato a prescindere da queste scelte, e lo obbliga a determinare la scena nel suo contesto sulla base di nozioni però incomplete.
Civil War funziona in modo piuttosto simile e in questa scelta ci sono sia i suoi pregi che i difetti.
È sicuramente un film molto potente perché, pur lasciando a tutti libera interpretazione di quanto stia accadendo, non prende davvero posizione raccontando la vicenda secondo il punto di vista di chi dovrebbe esserne “soltanto” testimone oggettivo (il giornalista di guerra), schiacciato però dal peso di trovare la giusta angolazione per fotografare/raccontare oggettivamente un tale scenario, ma che entra però in crisi di fronte al loro effettivo ruolo, proiettando sullo spettatore lo stesso interrogativo etico e morale riguardo alla nostra (molto) presunta neutralità (responsabilità?) su quanto accade nel mondo, con al centro del racconto la percezione (distorta?) della realtà (la foto che non ritrae tutto ma soltanto una parte), l’ambiguità dell’immagine (o del racconto) e definendo il processo fotografico/narrativo, dalla scelta del punto di visto a quella della composizione del quadro, come un possibile (probabile?) inganno alla realtà stessa.
La verità è sfuggente, complessa e quel che vediamo raramente è davvero quello che sembra, c’è sembra un’altra angolazione dal quale vedere le cose in una percezione del vero oggi giorno sempre più filtrata, ritoccata o artefatta.
E non è nememno quella, la verità, che cercano, in senso assoluto, i protagonisti stessi del film, più propensi piuttosto a cercare la gloria personale o il valore estetico della storia, crociati di una visione in quanto consapevoli di come un’immagine possa riscrivere la storia ma anche cambiare, non necessariamente inmeglio, la prospettiva con cui la si guarda, la storia.
Non a caso, infatti, Civil War è un film soprattutto visivo e, non a caso, è soprattutto a livello visivo che colpisce maggiormente, grazie alla fotografia di Rob Hardy e a una messa in scena iperrealistica che, attraverso l’uso di macchine da presa portatili costantemente addosso ai personaggi, conferiscono alle sequenze un aspetto dinamico e, al tempo stesso, caotico mostrando in modo diretto la violenza e la distruzione bellica.
Altrettanto fondamentale è anche la bellissima colonna sonora di Geoff Barrow & Ben Salisbury che incrocia tra loro sonorità tipicamente americane come il Blues e il rap passando anche per il southern rock.
E se la trama è di per sé piuttosto semplice e lineare, a fare la differenza sono soprattutto i personaggi, a partire dalla protagonista Kirsten Dunst (Intervista col vampiro, Jumanji, Spider-Man, Marie Antoinette, L'inganno, Il potere del cane), bravissima e minimale nel ruolo della fotoreporter Lee Miller, omonima della leggendaria fotografa di guerra che fu la prima a entrare nei campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau dopo la caduta del nazismo, e l’aspirante fotoreporter Jessie, incarnata dalla bravissima Cailee Spaeny (7 sconosciuti a El Royale, Pacific Rim – La rivolta, Priscilla), che venera Lee e che spera di trovare la "Gloria" in quel di Washington, meta del viaggio insieme ai colleghi Joel, interpretato da Wagner Moura, giornalista della Reuters che vuole intervistare il Presidente prima che questi venga “destituito”, e all’anziano Sammy, interpretato dal bravo caratterista Stephen McKinley Henderson, giornalista veterano di “quel che resta del New York Times”.
VOTO: 7/8
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