Regia di Alex Garland vedi scheda film
Il sistema democratico è sprofondato in una crisi apparentemente irreversibile, con segnali inquietanti che provengono da svariate direzioni, oltretutto con una frequenza in continua crescita (basta confrontare cos’è accaduto negli ultimi tre anni con il decennio precedente), e che sono ormai diventati parte organica di un ingranaggio in perenne deficit, che imbarca acqua da tutte le parti.
Non per niente, gli orizzonti si accorciano drammaticamente, con il pensiero rivolto strettamente al presente e al proprio raggio d’azione lasciando i nodi delle prospettive al giro di giostra successivo, le domande rimangono spesso inevase (oppure si risponde alle risposte, giusto per rimanere ai giorni nostri, vedasi la querelle tra Israele e Iran), i canali di dialogo s’interrompono velocemente e le decisioni di maggior rilievo vengono talvolta prese con una leggerezza disarmante, come se le relative ripercussioni fossero liminali e non importassero a nessuno.
Un contesto globale che non promette nulla di buono per il futuro e che Alex Garland coglie/sfrutta per scaraventare gli Stati Uniti all’interno di una guerra civile, entrando nel culmine del suo svolgimento, limitando al minimo le coordinate e cercando – riuscendoci – di non farsi incastrare in futili polemiche di bandiera (questo è un anno di elezioni negli Stati Uniti, tutto fa brodo). Un film contraddistinto da un manifesto programmatico perentorio, di gigantesca personalità, e destinato a suscitare scalpore, anche se in fondo (e già questo dovrebbe far riflettere quanto basta), se non fosse per il territorio prescelto, non racconterebbe niente di troppo strano/diverso rispetto a quanto accade regolarmente in giro per il nostro trasandato e tumefatto pianeta.
Stati Uniti, in un prossimo futuro non meglio precisato. Mentre il Presidente (Nick Offerman – Parks and recreation, Devs) è asserragliato alla Casa Bianca, la nazione è martoriata da una sanguinosa guerra civile e il fronte composto da Texas e California si prepara all’assalto finale nei confronti di quel che rimane del governo, Lee (Kirsten Dunst – Spider-man, Melancholia), una fotografa di guerra che le ha viste tutte (o troppe, se preferite), e Joel (Wagner Moura – Tropa de elite, Narcos), un giornalista disposto a correre qualsiasi rischio, decidono di percorrere 500 km per immortalare quanto è sul punto di accadere in quel di Washington.
A loro si uniscono l’anziano il riluttante Sammy (Stephen McKinley Henderson – Barriere, Lady Bird) e Jessie (Cailee Spaeny – Priscilla, Una giusta causa), una fotografa 23enne alle prime armi e smaniosa di confrontarsi con l’orrore del conflitto per testimoniarlo, vivendo un’odissea scandita da furenti scontri a fuoco, cecchini che sparano a vista a qualunque essere umano capiti a tiro, teste calde che approfittano della contingenza (s)favorevole per sfogare istinti violenti e primordiali, truppe pronte a entrare in azione e altri giornalisti/fotografi che seguono le loro stesse orme.
Per i quattro, il destino ha in serbo approdi differenti.
Con Civil war, Alex Garland (Ex machina, Men), impegnato nella duplice veste di sceneggiatore e regista, conferma di essere un content creator dotato di una notevole invettiva, in grado di pensare/formulare un cinema che non si accontenta di promuovere/propugnare definizioni standardizzate/rituali, che vuole destabilizzare ponendo quesiti su etica e coscienza, meritevoli di considerazione.
In questo caso, si getta nella mischia quando il punto di non ritorno è già stato superato da un pezzo e costituisce un quartetto di protagonisti che rappresentano altrettanti modi di pensare indipendenti tra loro, segnati dal livello di esperienza, dal grado di sopportazione maturato nel tempo, dagli obiettivi che si prefissano,dalla strada che ognuno di loro ha ancora voglia di battere.
Una specie di road movie che attraversa le fiamme dell’inferno e si addentra in un collasso che trasforma i peggiori incubi in una realtà angosciante, liberando i peggiori istinti, un racconto di formazione – di Jessie – che cresce a stretto giro di posta, un atto politico che dovrebbe mettere in guardia, così come un film di genere che plasma i codici a suo uso e consumo, scortando tematiche fondamentali con una praticità (le singole scene di battaglia sono una più bella dell’altra, peraltro in crescendo) che raramente si è vista nel cinema di Alex Garland (di certo, non in Annientamento, l’unico film ad alto budget che ha diretto).
Uno scenario ricco ed esplicito, trafitto da un caos fuori controllo che emette sentenze senza appello e una desolazione sconfortante, un bollettino dall’impatto poderoso, con contrasti insiti nella natura dell’essere umano, che rammenta le responsabilità – di giornalismo e politica - che sono ormai passate in secondo piano a vantaggio di un tornaconto di corto raggio, in un tour de force inossidabile nel quale non è consentito abbassare la guardia, le fratture non sono più ricomponibili e lo stato di allarme è permanente, che punta sullo sguardo, su una percezione vivida e invasiva, contrastante e sferzante.
Un film in ebollizione, viscerale e serrato, anche quando riprende fiato (lo sfondo rimane sempre ostile, le paure mantengono il fiato sul collo), con una potenza di fuoco considerevole, che sfocia in tutta la sua potenza in un fase finale al cardiopalma, dove la fotografia di Rob Hardy (Mission: Impossible – Fallout, Boy A) e il montaggio di Jake Roberts (Hell or high water, Il ribelle) creano uno scarto significativo con tutto quanto siamo abituati ad assistere sullo schermo.
Infine, l’alto livello – concettuale ed emozionale - di Civil war è ulteriormente avvalorato dalle interpretazioni. Un gruppo solido e simbiotico, che in buona parte aveva già avuto a che fare con Alex Garland, nel quale Kirsten Dunst incorpora una stanchezza opprimente (troppe volte la sua Lee ha visto cose del genere), uno spirito protettivo di stampo materno e un altruismo integrale, con una profondità degna di menzione che ripaga della fiducia conferitale (la leadership è indubbiamente nella sue mani), Cailee Spaeny rappresenta le nuove leve che avanzano, con un cocktail di fragilità e ardore che esterna con ragguardevole attinenza/intensità, mentre Wagner Moura aggiunge un quid di esuberanza e Stephen McKinley Henderson infonde una pacata saggezza, che passa in secondo piano solo quando l’urgenza richiede dell’altro.
In definitiva, anche se molti si fermeranno al primo stadio di quanto effettivamente sfornato, Civil war ha molto da comunicare e da condividere, rigorosamente con il cuore in gola, in una full immersion radicale dalla messa a fuoco consapevole e competente, brutalmente efficace e integrato da sbalzi fenomenali (sound on/off, corsa/stasi, foga/quiete), con una condensazione che contiene saggiamente il minutaggio.
Non (s)cade nella retorica spiccia e si adegua facilmente ai singoli stage in virtù di una ragguardevole rapidità di esecuzione, con tattiche di assalto e fuga delineate con il goniometro, mettendo in bella vista il risultato di logiche binarie fondate sulle contrapposizioni, che al lume della ragione preferiscono l’ascia di guerra, con un colpo di grazia massiccio, fulminante e calibrato nei minimi particolari (come uno sguardo che dice tutto), un punto esclamativo che non lascia scampo.
Pervicace e dilaniato nelle viscere, granitico e scevro da scontate concessioni.
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