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The Bikeriders

Regia di Jeff Nichols vedi scheda film

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La recensione su The Bikeriders

di daveper
6 stelle

Con The Bikeriders, Jeff Nichols trae ispirazione dall’immaginario potente di Il selvaggio e Easy Rider, due pellicole che, pur distanti per estetica e intenzione, delineano insieme un percorso simbolico della ribellione americana su due ruote. Il selvaggio getta le basi della ribellione in un’America degli anni ’50 che, pur dominata da un’ansia di conformità, assiste al germogliare di un’inaspettata controcultura. 

Poi, il salto in avanti. Arriviamo al 1969, all’apice delle contraddizioni sociali che scuotono l’America, con Easy Rider di Dennis Hopper. Qui, la moto è ancora il simbolo della libertà, ma la ribellione si veste di disincanto. La strada diventa un luogo di fuga e alienazione, lontana dall’innocenza e dalla speranza di un’America che già fatica a riconoscersi. Tra il 1953 e il 1969, i 15 anni che separano queste due pellicole segnano un’evoluzione della ribellione: da una forma ancora acerba, ispirata e quasi naïf, si passa a un’espressione di protesta carica di angoscia e cinismo, un percorso che Nichols cerca di condensare e rendere tangibile nel suo film.

In The Bikeriders, l’eco di questi due riferimenti si mescola, creando un affresco della ribellione che non è più solo un atto di rifiuto, ma un interrogativo esistenziale. Qual è il prezzo della libertà? E, mentre seguiamo il percorso dei Vandals, Nichols sembra chiederci: cosa rimane quando il viaggio si compie, quando si è vissuto tutto il possibile e si è toccato il limite tra ciò che si è e ciò che si sarebbe voluto essere?

La visione di Jeff Nichols in The Bikeriders è dichiaratamente lontana dal rigore di un documentario, e in questa distanza si rivela una poetica in grado di trascendere i fatti, per aprire uno spazio tutto suo, intriso di memoria e malinconia. Non c'è una fedeltà ai dettagli specifici, e non potrebbe esserci, perché ciò che il regista insegue non è tanto la cronaca, quanto il frammento di un’epoca che svanisce, un microcosmo fatto di polvere, cuoio e motori ruggenti, che forse è esistito o forse no, ma che per lui diventa reale nella magia della narrazione. The Bikeriders non è quindi un racconto di fatti, ma una meditazione sul desiderio umano di appartenere a qualcosa di fugace e indomito, qualcosa che lasci il segno, anche solo come un’eco lontana. È un racconto di persone che si muovono e scompaiono, il cui passaggio è segnato più dai gesti e dagli sguardi che dalle loro storie personali. La specificità del tempo e del luogo diventa allora universale: un’evocazione di quella tensione verso la libertà, verso un’identità costruita sulla sabbia ma mai priva di significato.

 

 

 

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