Regia di Jeff Nichols vedi scheda film
Scusatemi ma colgo l'occasione per fare un lungo giro, prendere larga la curva e partire da molto (troppo?) lontano: con la fine della Seconda Guerra Mondiale la società americana deve vedersela con il ritorno a casa dei reduci di quel conflitto che mostrano diverse problematiche e appaiono spaesati davanti a una nazione che faticano a riconoscere, spinti ai margini di un mondo che per loro ha perso di senso e significato.
In quegli anni gli Stati Uniti sono “la Nazione dell’automobile” e il sogno americano è diventato possedere una fiammante quattroruote parcheggiata nel vialetto di casa con giardino nella periferia delle grandi città.
Al contempo ci sono però anche giovani che non si riconoscono più nei valori dei padri e delle madri e che si ribellano a questo modello di vita americana, i cosiddetti “ribelli senza causa”.
Questi due poli così agli antipodi si incontrano e finiscono poi di unirsi nel loro odio per il conformismo bigotto e da un bisogno disperato di essere qualcosa di diverso da quanto imposto dalla società, ed è anche per questo che questi reietti scelgono come proprio simbolo e modello di vita la motocicletta invece dell’auto.
Nascono così i primi Motor Club (MC), fondati principalmente da ex-piloti di caccia bombardiere (i giubbotti con toppe e scritte che portano non sono altro che l’equivalente dei giacconi da aviatore che indossavano in guerra) che si comprano o si costruiscono una moto, riunendosi e sgasando per le strade in città a fare baldoria e/o a combinare casini lungo le Highway americane.
Scoppiano quasi subito le prime grane e, nel ‘47 a Hollister, in California, durante un tranquillo raduno di motociclisti, intesi come semplici appassionati di moto, i membri di un MC che si fanno chiamare Pissed-Off Bastards Of Bloomington, non invitati all’evento, danno inizio a una rissa che presto coinvolge l’intera città, che viene messa a ferro e fuoco.
Intervengono la polizia e perfino l’esercito ma, soprattutto, arrivano anche i giornalisti che, ovviamente, cavalcano la notizia e che si diffonde rapidamente per tutto il paese.
Immediatamente l’American Motorcyclist Association diffonde un comunicato prendendo le distanze dai facinorosi e affermando che il 99% dei motociclisti sono cittadini rispettosi delle leggi. Per tutta risposta i MC iniziano a portare una toppa romboidale sui loro giubbotti con scritto, semplicemente, 1%.
Nasce il mito del “One-percenters”, del fuorilegge in sella a una rombante moto.
I protagonisti delle sommosse di Hollister, i Pissed-Off Bastards Of Bloomington, il cui (ridicolo) acronimo è POBOB, decidono giustamente di cambiare nome e diventano così gli Hells Angels.
Il cinema hollywoodiano si innamora immediatamente di loro, da quando iniziano a diffondersi per le strade di tutta l’America intuendo da subito in questo fenomeno un’eco nel mito della frontiera, i bikers come discendenti diretti dei fuorilegge del Far West americano, con le moto al posto dei cavalli.
Nel 1954 esce The Wild One, in Italia come Il selvaggio, per la regia di László Benedek e un giovane Marlon Brando protagonista nel ruolo di un ribelle con giubbotto di pelle, t-shirt bianca, dei jeans scolorito e un berretto da aviatore in testa oltre, ovviamente, a una fiammante motocicletta (esattamente una Triumph Thunderbird del 1950).
La figura del motociclista e il suo look diventano immediatamente iconici così come il loro senso di ribellione verso la società costituita.
Se prima de Il Selvaggio quella dei MC era da considerarsi come un fenomeno di nicchia, dopo diventa invece un caso nazionale perché centinaia di persone, ispirate dal film, decidono di saltare in sella a una moto.
Tra queste c’è anche un camionista di Chicago, John Davis, che già prima della guerra aveva fondato un club di appassionati di corse in moto ma che, tornato dalla guerra e ispirato da Marlon Brando, decide di fare sul serio fondando gli Outlaws di Chicago, Motor Club che diventerà poi famosa grazie al libro fotografico di Danny Lyon dal titolo The Bikeriders.
Lyon entra pure a far parte della banda e per tutti gli anni’60 ne fotografa lo stile di vita e intervista molti dei suoi membri più significativi, raccontandone l’ascesa come anche la caduta di questa specie di “età dell’Oro” dei motociclisti nella spirale del crimine organizzato, tra spaccio di armi e droghe e tanti, tantissimi omicidi, di cui uno dei primi fu proprio quello di John Davis.
The Bikeriders di Jeff Nichols parte proprio dall’omonimo libro reportage fotografico di Lyon (ma ne cambia i nomi, prendendosi anche parecchie libertà) per raccontare questa prima fase del mondo dei MC, uno spaccato di quella controcultura americana rimasta nell’immaginario collettivo ma negli ultimi anni fin troppo trascurata da Hollywood.
Da Il selvaggio a Easy Rider passando per i biker movie di Roger Corman (I selvaggi) sono ormai trascorsi tantissimi anni ma quel senso di non appartenenza e di inadeguatezza come anche di rigetto delle istituzioni è rimasto (immutato? Peggiorato?) nel tessuto sociale del paese.
Nichols tratta il nichilismo dei bikers svuotandolo paradossalmente della strada, privandoli del loro scenario privilegiato e sminuendone le scorribande che sono il loro principale terreno d’azione all’unico scopo di mostrare piuttosto l’epifania del gruppo, intesa come famiglia allargata e di collettività alternativa, un senso di appartenenza che genera anche ammirazione e la cui drammatica dissoluzione nel crimine più che per l’ingresso di nuovi membri inaffidabile (reduci del Vietnam, tossici e criminali) avviene perché al concetto di comunità si sostituisce progressivamente un principio di individualismo egoistico (il mito del leader) a scapito proprio del bene comune.
Natalie Wood, James Dean e Marlon Brando. O quasi.
In questa sua struttura così semplificata Nichols delega l’intera funzionalità del progetto all’interpretazione del trittico di protagonisti che, quasi a pari merito, regala comunque ottime prove.
E se Austin Butler fa quello che gli riesce meglio, attirando l’attenzione sulla sua bellezza d’altri tempi, Tom Hardy giganteggia da par suo, giocando sulla sua fisicità e donando al suo personaggio una complessità dettate più dalle sue movenze che non dallo script mentre Jodie Comer lavora piuttosto sull’ambiguità del suo personaggio, molto più enigmatico di quanto possa apparire.
Completano il cast il lanciatissimo Mike Faist, Boyd Holbrook, Emory Cohen, Damon Herriman, Toby Wallace, Norman Reedus e, ovviamente, l'immancabile Michael Shannon.
Girato con un obiettivo Kodak da 35mm che rimanda direttamente al periodo dei biker-movies di Corman, con The Bikeriders Nichols racconta la parabola di un’epoca in inevitabile logoramento e la loro progressiva caduta in una pacata “zona grigia”, molto attento a non mitizzare ma neanche a disprezzare, le azioni e i principi dei suoi protagonisti ma mostrando piuttosto gli effetti di una ossessione su delle persone ma incapace però di spiegarci il perché di una tale ossessione.
Non aiuta che a raccontare il tutto sia un anonimo giornalista, a cui lo stesso Nichols, tra l’altro, sembra totalmente disinteressato (nessuno sviluppo o caratterizzazione, non sappiamo perché lo fa, cosa gli interessa o cosa pensa dei protagonisti), che intervista Kathy, quindi raccontando la storia per interposta persona, per ricostruire i destini di tutti ma mancando di dare carattere e respiro alla storia.
Il risultato è una vicenda di progressiva caduta in cui protagonisti sono come pesci in un acquario, li osserviamo attraverso il vetro, li studiamo, analizziamo e li amiamo (anche) ma non ci importa mai veramente di loro, non ci emozioniamo con loro.
“Un ragazzo incontra una ragazza…”
Jeff Nichols resta fedele ai suoi concetti cinematografici pur guardando al cinema del passato e ci regala uno sguardo su un’America d’altri tempi ma lo fa con qualche ingenuità, anche con una certa consapevolezza priva di eccessiva retorica ma rimane troppo in superficie, non osa forse perché, non essendo appassionato di moto, ha uno sguardo eccessivamente distaccato nei confronti di quanto trattato, non riuscendo a trasmettere l’emozione di quegli eventi, raccontati piuttosto che vissuti.
The Bikeriders rimane quindi un buon film ma non è certamente un grande film e, in questo senso, può essere sicuramente considerato come un’occasione mancata.
VOTO: 6,5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta