Regia di James Marsh vedi scheda film
"È una catastrofe", mormora Samuel Beckett (Byrne da vecchio, O'Shea da giovane) all'orecchio della moglie Suzanne (Bonnaire) nel momento in cui il suo nome viene pronunciato come quello del destinatario del premio Nobel per la letteratura, nel 1969 (pare che sia stata invece lei a dirlo a lui). A quel punto entra in scena il doppio di Beckett, la sua coscienza, per una gimcana a ritroso nel tempo, che porta lo spettatore a conoscere gli elementi chiave della vita del grande autore irlandese: il difficilissimo rapporto con una madre normativa e dispotica, l'ammirazione e poi la frequentazione di un altro grande dublinese, James Joyce (Gillen), di cui Beckett rifiutò la figlia schizofrenica a cui seguono, in un'impaginazione quasi tutta per nomi, l'amore per Suzanne, la Resistenza in Francia, i primi successi, la morte di un amico carissimo, la lunga relazione con un'amante e la fine, prima con la vedovanza e poi con la morte, in una casa di cura dove risiedeva da tempo, nel 1989.
Dopo aver raccontato le vicende di Stephen Hawking e di Donald Crowhurst, al suo terzo biopic di fila il regista James Marsh prova a smarcarsi dai cliché del genere, per firmare un film proteso a mettere in scena la struttura sghemba tipica del teatro dell'assurdo, di cui l'autore di Aspettando Godot fu, con Tardieu, Ionesco e Adamov, uno dei maggiori rappresentanti. Ne esce invece un guazzabuglio percorso interamente dalle schermaglie tra Beckett e il suo doppio, a servizio di un'opera tronfia, gelida, incapace di emozionare e di suscitare una qualche empatia con un personaggio dal palpabile male di vivere.
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