Regia di Coralie Fargeat vedi scheda film
Inizia molto bene l’ultimo film della Fargeat, con un riassunto della carriera della protagonista da attrice cinematografica riconosciuta a personaggio televisivo in declino nel semplice degrado della sua stella nella Walk of Fame sull’Hollywood Bolevard.
Il problema è che il resto del film manca proprio della medesima concisione e incisività, raccontando il tracollo dell’attrice, interpretata da Demi Moore, licenziata dal suo spazio catodico di allenatrice di aerobica per sopraggiunti limiti di mezza età, e tentata da un prodigioso rimedio, una sostanza che la riporta letteralmente alla giovinezza duplicandone il corpo in un clone nuovo (di Margaret Qualley). Ma come ogni patto col diavolo comporta, anche questo impone delle regole, inflessibili quanto semplici: la coabitazione è impossibile e i due corpi dovranno alternarsi vivendo a settimane alterne. E, in quanto racconto morale, anche questa parabola è destinata al fallimento, all’impossibile convivenza delle due donne, infine in gara tra loro per un unico spazio vitale.
La scelta della regista, parlando di corpo femminile, è di traslare la narrazione da satira del male gaze al body horror, senza lesinare sul grottesco. Così ogni sguardo maschile è schifosamente disgustoso, perfettamente incarnato dall’esagerazione recitativa del dirigente televisivo di Dennis Quaid (che poi ha confermato la tentazione del personaggio con l’endorsement a Trump), dai dettagli sul cibo masticato in una bocca sempre aperta e dallo sguardo rancido e lussurioso, ma talmente pervasivo da contagiare ogni punto di vista (come nella sala affollata di spettatori) sino a quello stesso della protagonista, che non sa vedersi se non attraverso lo specchio deformato del punto di vista dominante. A nulla quindi serve la sua sostituzione rancorosa con l’altra sé, che non è altro da sé se non ringiovanita, concorrente per la medesima posizione in una rivalsa che si rivela futile e pretestuosa. Perché quel corpo giovane diviene subito, anche per le proprie esigenze di popolarità, una concorrente, da penalizzare e punire, non una sodale al fianco della quale combattere un predominio ingiusto
E di fronte all’impossibilità della scelta di vivere appieno una mezza vita, la doppia protagonista ingaggia una serratissima lotta contro se stessa che assume l’aspetto di una guerra del sesso persa in partenza, perché improntata soltanto all’affermazione nella sostituzione, quindi alla prevalsa del corpo e della corporeità, di cui rimane sempre e comunque vittima. Da cui la scelta di travalicare il conte moral e trascinarlo nel racconto dell’orrore, dove, con cinefila necrofilia, la regista inanella citazioni su citazioni del miglior cinema di riferimento colto, da Kubrick a Cronenberg, da Lynch a De Palma, tra Cronenberg e Scott, in mezzo a schizzi di sangue, inondazioni di emoglobina, corpi mostruosi, creature difformi e patetiche, omicidi efferati, mostri sbudellati e risate sbellicate.
Ne risulta un indigesto accumulo di allusioni e imprestiti che appesantiscono un film che diventa una vetrina di uno sguardo altro e altrui, senza alcuna pietà per un’eroina persa tra vischiosità umorali e ridicolo morale, che non si affranca mai da ciò che la condanna. Lo sguardo del maschio diventa il punto di vista implacabile di una regista moralista che si vendica sulla vittima, colpevole di essere incapace di rispondere se non cercando una scorciatoia per essere soltanto vista e rivista, ma mai veramente guardata. E nella sua inflessibilità sarcastica e cinica, Fargeat perde il film per troppa coerenza, ridicolizzando il suo stesso soggetto e saturando gli occhi dello spettatore con uno spettacolo che stanca e sfianca, in una ripetitività e linearità che poco lasciano all’immaginazione, concedendo poi l’unico sollievo della fine, con il ritorno su quel marciapiede accidentato dal sogno di essere visti.
Ma mai per davvero, perché anche la regista finisce per mascherarsi e nascondersi dietro agli sguardi altrui, con inquadrature rubate e reiterate, citazioni sottratte a veri maestri del cinema che costruiscono un immaginario soltanto cacofonico e derivativo.
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