Regia di Coralie Fargeat vedi scheda film
Se ci limitassimo all’analisi della trama e dei temi, The Substance potrebbe essere facilmente dato per scontato. Ma, al di là di questo, il vero punto di forza di The Substance è il lavoro sulle immagini, che annulla la distanza tra bellezza estetica e orrore.
Che tentazione verrebbe di arricchire con la punteggiatura certi nomi, certi motti, certe frasi di questo film. Così da trasformare Elizabeth Sparkle in Elizabeth, Sparkle! e così da ombreggiare con il dubbio di un punto interrogativo tutti i dogmi di The Substance, primo di tutti: You Are One. You Are One?
Semplice a dirsi, difficile a farsi. L’assunto del “You Are One" sembra implicare che l’identità di una persona sia la risultante delle componenti intangibili della persona stessa, quelle che non teoricamente non dovrebbero essere intaccate neanche in uno scambio di corpi: la coscienza, gli ideali, i valori, le passioni, i ricordi, la facoltà di pensiero. Giammai. O meglio, col cazzo. Nel mondo di Elizabeth (magari fosse solo il suo) è l’aspetto fisico a determinare, se non l’identità, il valore di un essere umano: in tutti i campi, soprattutto in quello commerciale. E quindi la coscienza “una” di Elizabeth è come l’acqua, ed assume la forma del contenitore che la ospita, arrivando a un grado di conflittualità interna tale da innescare uno sdoppiamento completo, possibile prima di tutto perché Elizabeth e Sue, prima di essere delle persone, sono delle immagini, e come tali sono distinte. Due immagini diverse: da una parte quella sbiadita della diva sul viale del tramonto, dall’altra parte la donna ideale, la Mary Sue fatta a immagine e somiglianza del desiderio maschile; però la loro personalità è una: vanitosa, bisognosa di attenzioni, del centro della scena, una per deformazione di carriera, l’altra per la sua programmazione, o forse, perché è vero che Elizabeth è una e la sua personalità consiste nel voler essere un’immagine splendida, scintillante.
Ma Elizabeth e Sue sono due immagini diverse, separate, e la loro separazione è data dal trattamento ricevuto, dai privilegi che solo la più bella del reame può ottenere, e dagli stati emotivi che ne conseguono. Il ricorso a The Substance per Elizabeth non comporta soltanto una dipendenza, ma addirittura una forma di invalidità: da intendersi sia nel senso forzosamente etimologico dello screditamento, ma anche nell’accezione più nota, quella della totale privazione delle capacità. Con l’abuso di The Substance si consuma il corpo di Elizabeth, ma si consuma anche la sua mente di matrice debole ed imperfetta, la sua tolleranza ai propri difetti, addirittura la sua percezione del suo stesso corpo, sempre più deformata: perché ad Elizabeth, per giudicare il proprio corpo (e quindi la propria immagine), basta solo tirare le somme di ciò che la società riserva a Sue in quanto bellissima e ciò che riserva a lei in quanto invecchiata. Elizabeth non può uscire più di casa. Non può più permettersi di esistere. Tutto il mondo sembra per Sue, ma è qui che si riscontra il lato oscuro del giocare secondo le regole: il gioco premia chi è perfetto, ma i premi vengono ritirati quando la perfezione decade. Così quel “sono io”, per quanto ci ispiri pietà, è anche una preghiera fuori tempo massimo: io chi? Ce n’è mai importato qualcosa?
Se ci limitassimo all’analisi della trama e dei temi, The Substance potrebbe essere facilmente dato per scontato, per quanto una trattazione di questo tipo, nell’era in cui il proprio doppio è a distanza di un filtro di Instagram, non possa essere più attuale e necessaria. Ma, al di là di questo, il vero punto di forza di The Substance è il lavoro sulle immagini: senza proclami a polmoni spiegati e inutili sottolineature metacinematografiche, Coralie Fargeat racconta una storia con l’asetticità della visione zenitale, con l’invadenza dei dettagli e dei grotteschi primi piani con wide lens, con gli accostamenti (Dennis Quaid che sventola un gambero floscio mentre fa sermoni sull’età di Demi Moore), e soprattutto con una grande proprietà di immagini e suggestioni iconiche (vedi le palme), soprattutto nel caso dell’horror. È l’accostamento tra horror e glamour, senza soluzioni di continuità, che potrebbe essere uno degli aspetti più interessanti di questo film: un registro risemantizza l’altro con l’ironia a fare da collante. E quindi il temibilissimo corridoio di Shining diventa la galleria dei successi prima di Elizabeth e poi di Sue, e la pistola estratta dallo stomaco di James Woods in Videodrome diventa una coscia di pollo, protagonista di un’intensa sessione di binge eating.
Fargeat fa lo slalom tra il body horror più repellente e viscerale e l’ostentazione patinata della bellezza femminile, al punto in cui le forme di Sue, mostrate in modo morboso ed eccessivo, diventano fonte di incubi più che di sogni erotici, così come sono per Elizabeth. Ed è uno slalom talmente vorticoso che il suo condizionamento che perdura anche dopo la fine del film, quando facciamo ritorno alla nostra cultura mediatica così marcatamente sessualizzata: e rimangono con noi anche le immagini del finale, dove l’aspetto mostruoso dell’ibrido tra Elizabeth e Sue riesce ad eguagliare la mostruosità del trattamento che Elizabeth riceve, ed anche la mostruosità delle procedure a cui Elizabeth sceglie di sottoporsi. Con quello sfogo, con quella pioggia di sangue finale che sembra uscita da Carrie, Elizabeth finalmente rivendica la propria sofferenza, interrompe la garanzia logica che le belle ragazze debbano sempre sorridere; ci racconta che la bellezza, quella dei magazine e degli schermi grandi e piccoli, può essere un film dell’orrore. E The Substance ci insegna a provare quell’orrore, questa volta non per noi stessi, ma per il doppio che vorrebbe imporsi al nostro posto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta