Regia di Robert Eggers vedi scheda film
Possibile realizzare un nuovo Dracula capace di suscitare entusiasmi e attenzioni dopo oltre cento anni di continue riproposizioni, tra cui anche quella in 3D di Dario Argento? La risposta è si e lo si deve a uno dei maggiori talenti nel campo horror degli ultimi venti anni. Robert Eggers torna alle atmosfere del suo magnifico film di esordio, quel The Witch (2015) capace come pochi di regalare inquietudini ancestrali di matrice occulta (qua rappresentate da cerchi magici e da formule arcane), e lo fa guardando da un lato alla pellicola di Murnau e dall'altro al romanzo di Bram Stoker da cui decide di riproporre il personaggio di Van Helsing (ribattezzato Von Franz), il tutto incastonato in scenografie d'epoca (siamo nel 1838) che ben si legano alla sua predilezione per il folk-horror.
Inutile parlare della struttura del film che segue, piuttosto fedelmente, quella del romanzo di Stoker con le varianti introdotte nel 1922 dall'adattamento di Murnau. I fatti si svolgono infatti in Germania (e non nella Londra vittoriana) e ruotano attorno all'idea dell'arrivo di una particolare e aggressiva peste giunta via nave dall'oriente. Lo stesso Conte, che torna a chiamarsi Orlok, ha una caratterizzazione più vicina a Murnau che all'immaginario collettivo destato dal romanticismo di Stoker. Dimenticate il fascino erotico di Christopher Lee o il ringiovanimento e il carisma di Gary Oldman. I modi del Conte Orlok (un irriconoscibile Skarsgaard, già Pennywise nel rifacimento di It) sono autoritari, bruschi, e tutt'altro che empatici, con un timbro di voce asmatico che inquieta e impaurisce persino i personaggi (figurarsi gli spettatori). Orlok è un mostro, non ha il cranio glabro e la schiena arcuata ideata da Murnau e ripresa da Herzog e soprattutto dai vampiri di Tobe Hooper e di Stephen King; è una bestia ultracentenaria, decadente, con piaghe tumorali sulla pelle e i baffetti ripresi dal testo originale di Stoker e di solito mai rappresentati dalle trasposizioni cinematografiche. Non cerca l'amore dell'eroina, bensì lo impone sotto estorsione. Eggers sembra rifarsi un po' al Dracula di Coppola, ma conferisce al suo personaggio e alle location in cui questo si muove (ivi compreso un castello fatiscente, pieno di calcinacci e assai spoglio) una decadenza ai limiti della putrefazione. Lo stesso Ranfield, che qua torna ad avere il ruolo di profeta del male (con tanto di commenti fuori campo che richiamano celebri passi dell'Apocalisse di San Giovanni), incarna la pazzia nella forma della zoofagia proprio come nel testo originario.
Curiosamente vengono meno la tematica legata alla piaga del vampirismo e tutti gli accorgimenti tra sacro e profano (niente croci). Non ci sono le trasformazioni in vampiro da parte dei contaminati (sebbene si riproponga la scena dello scoperchiamento della tomba di colei che nel romanzo si chiama Lucy) sostituite da una psicosi simile alla possessione diabolica e soprattutto dall'emergere di una malattia che viene confusa per i sintomi della peste. In città, infatti, vi sono veri e propri sciami di topi vomitati da una barca giunta dai Carpazi e si vedono scene con tanto di monatti di manzoniana memoria che caricano sui carretti i morenti adagiati sui muri perimetrali delle abitazioni.
Valore aggiunto alla pellicola sono i continui effetti sonori finalizzati a suscitare tensione. Le zone d'ombra, le luci soffuse e un commento sonoro giostrato sui toni bassi rendono questo adattamento indubbiamente tra i più paurosi mai concepiti, tanto da offrire citazioni persino a Lucio Fulci e al suo Paura nella Città dei Morti Viventi (occhi che lacrimano sangue). In poche parole, il Nosferatu del 2024 fa paura dall'inizio alla fine ed è un qualcosa che, al giorno d'oggi, non è affatto facile da riscontrare. Eggers dimostra di essere uno dei pochi maestri del genere del nuovo secolo. Il suo stile da folk-horror brilla nelle sequenze iniziali con gli zingari (che qua, contrariamente al romanzo, sono avversi al vampiro) e negli scenari di una Wisborg in cui si allunga l'ombra della mano del vampiro (una sequenza da antologia che offre l'illusione della sospensione in volo degli spettatori). Eggers non lesina nel giocare con le luci, così da riproporre i continui omaggi al cinema espressionista tedesco, delizia degli horror degli anni trenta con le classiche ombre allungate su muri e sulle tende danzanti.
La componente romantica cara a Stoker viene quasi del tutto cancellata. L'eroina (la Mina di Dracula) involve al rango di una donna dannata destinata a sacrificarsi per il bene collettivo (l'epilogo rispecchia quello di Murnau pur amplificando la componente erotica). C'è un passato peccaminoso alle spalle della giovane (si veda anche il rapporto sessuale spinto col marito), un qualcosa di perverso e di sadico che corrompe quell'animo mariano che era, invece, al centro del romanzo. In altre parole, Mina diventa qualcosa di non troppo lontano dalla Lucy del romanzo, una sorta di concubina di Satana che cerca di liberarsi dal maleficio espiando una colpa altrimenti insanabile. Proprio questo è l'aspetto caratterizzante del copione del film, a tratti imparentato persino con i film di possessione diabolica (L'Esorcista).
Crudo in molte scene, il “nuovo” Nosferatu è un horror dalle atmosfere soffocanti, con fotografia e scenografie fredde e glaciali. Le scenografie, in particolare, sono decadenti. Il castello del Conte è fatiscente, non è impreziosito da tutte quelle fantasmagorie tipiche del Dracula della Hammer. I colori non sono sgargianti, bensì cupi, grigi. Il sangue (e ce n'è parecchio) non è rosso scarlatto, ma nero e marcio, con improvvise esplosioni di violenza montate per far saltare sulle poltroncine gli spettatori.
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