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Wildcat

Regia di Ethan Hawke vedi scheda film

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La recensione su Wildcat

di mck
9 stelle

“Ancor più del dolore: meraviglia.”

 

Il Kentucky (checché ne dica Burt Lancaster o il Fried Chicken) non esiste, proprio come il Molise. Eppure, proprio come il Molise: eccolo lì (a guisa dellIowa e, soprattutto, della Georgia).

«Ogniqualvolta mi chiedono perché gli scrittori del Sud in particolare hanno un debole per i personaggi anormali, rispondo che siamo ancora capaci di riconoscerne uno.» Flannery OConnor, da “Alcuni Aspetti del Grottesco nella Narrativa del Sud”, citata in “le Parabole di Flannery O’Connor” di Joyce Carol Oates.

 

 

E “WildCat”, la 6ª regìa di Ethan Hawke (1970) dopo “Chelsea Walls”, “the Hottest State”, “Seymour: an Introduction”, “Blaze” e “the Last Movie Stars”, in questo caso, e come spesso gli accade, anche sceneggiatore, nello specifico in collaborazione con Shelby Gaines [quest’ultimo anche autore della discreta - nel senso di non invasiva -, necessaria ed ottima colonna sonora col fratello Latham, entrambi già al lavoro sul “the Kid” di Vincent DOnofrio, che qui appare in un cameo nel prologo in B&N, mentre la dal PdV tecnico puntualmente variegata, nel suo range cromatico “ristretto”, fotografia è di Steve Cosens (“Station Eleven”), che torna a lavorare con Hawke dopo “Blaze” e il montaggio, che trasla con dovizia e naturalezza assolute il flusso diramantesi/confluentesi dello script, è di Barry Poltermann (“Jim & Andy”), che torna a lavorare con Hawke dopo “the Last Movie Stars”] e co-produttore (Renovo Media Group, Good Country Pictures, Under the Influence Productions e OscilloScope Laboratories, questi ultimi anche distributori), è un’opera che riesce a restituire quasi…

– perché, suvvia, l’avverbio è oggettivamente d’obbligo a prescindere, e per l’occasione l’appunto potrebbe vertere sul fatto che lo sviluppo della messa in scena di - ancòra - quasi tutti i racconti da cui sono tratti i “film nel film” è, quando i protagonisti sono una coppia eterosessuale, scientemente interrotto [pure per via del fatto che, strutturalmente, la loro messa in scena segue l’evoluzione in fieri degli stessi da parte dell’autrice di “Wise Blood” (1952) e “the Violent Bear It Away (1960), e quindi il “Cut!” anticipato può essere narratologicamente  “giustificabile”] là dove il personaggio maschile si stacca da quello femminile, quasi sempre interpretato da Maya Thurman-Hawke (1998; “Once Upon a Time in... Hollywood”, “Stranger Things”, “the Good Lord Bird”, “Fear Street - Part One: 1994”, “Do Revenge” e “Asteroid City”, più tre dischi/album di tutto valore - “Blush”, “Moss” e “Chaos Angel” -, ascoltare…

 

 

…per credere), mentre la pagina scritta seguiva le vicende dei malfattori sino alla grazia, all’epifania, alla salvezza, alla rivelazione, all’abisso o che altro: qui, no, il PdV si ferma ad esempio a “lei” abbandonata al ristorante (“the Life You Save May Be Your Own”, con l’ottimo Steve Zahn di “Rescue Dawn”, “Treme” e “the White Lotus: Hawaii”) e a lei lasciata senza la sua gamba di legno (“Good Country People”, col sempre più convincente - come se vi fossero dubbi - Cooper Hoffman di “Licorice Pizza”), entrambe storie tratte da “A Good Man Is Hard to Find and Other Stories” (1955), tranne che nel caso di “Parker’s Back” (con Rafael Casal) che - tratto da “Everything That Rises Must Converge”, antologia postuma (1965), ma data alle stampe in tutto e per tutto curata dall’autrice seguendo i suoi dettami - subisce il trattamento inverso… ed equivalente, dato che la parte espunta contiene tutte le digressioni analettiche sulla vita dell’uomo (ora riverso nel fango col suo Cristo tatuato a sangue sulla schiena preso a scopettate) prima del matrimonio con la donna –

…perfettamente integra la complessità dell’ecosistema letterario di Flannery O’Connor veicolandola attraverso un abile gioco metacinematografico, mai fine a sé stesso, e, oltre alle prestazioni dei già citati Maya Thurman-Hawke, Steve Zahn, Cooper Hoffman e Rafael Casal, al resto del cast completato dalle altrettanto eccellenti prove di Laura Linney (Regina, la madre di Flannery O’Connor, e altri personaggi della mente della figlia), Philip Ettinger (Robert “Cal” Lowell: "Flannery, ti amo moltissimo (non è una proposta, mi conosci: ho altre uova da friggere, come si dice)." - "Fammi sapere quando hai finito di fare colazione, allora."), Alessandro Nivola (un editor della Rinehart), Liam Neeson (un prete irlandese), Willa Fitzgwerald (Elizabeth Hardwick, scrittrice e critica letteraria, oltre che futura ex-moglie di Cal), recentemente apprezzata in "Strange Darling", e, ultima non ultima, la memorabile interpretazione della caratterista Christine Dye, qui al suo ruolo più importante, ad oggi, della carriera: bravissima.

 


- Temo che l’unica cosa che potrò mai fare sarà scrivere.
- E allora scrivi! […] Il resto è tutta paglia.
- Suppongo che potrei sopportare di ammalarmi se avrò la forza di scrivere un po’ ogni giorno.

 

"WildCat", assieme ad "A Quiet Passion" (2016) di Terence Davies, su Emily Dickinson, e a "Shirley" (2020) di Josephine Decker ("Butter on the Latch", "Thou Wast Mild and Lovely"), sulla Jackson autrice di "the Lottery and Other Stories", "the Bird's Nest", "the Haunting of Hill House" e "We Have Always Lived in the Castle", è uno dei migliori "bio-pic" (sui generis!) letterari recenti.

Un saluto poi alla gallina (i pavoni verranno dopo) che “Quando arriva, se ne va davvero!”, ma ecco che c’è pure tempo per un chiosante ultimo ringraziamento segnatamente rivolto all’inconsapevol(ment)e (tale) sacrificio dei maiali; e sul serio infine, ovvero: sempre: “Ancor più del dolore: meraviglia.”

* * * * ¼ - 8.50   

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