Regia di Brady Corbet vedi scheda film
The Brutalist (2024): locandina
Presentato a Venezia, Leone d'argento premio per la miglior regia, e ancora per un po’ nelle sale per coraggiosi pionieri decisi a sfidare le tre ore e mezzo di durata, The Brulalist va visto e rispettato come le grandi opere fluviali che in passato hanno lasciato il segno nella storia del cinema e nella nostra memoria.
Diviso in due da una pausa di un quarto d’ora, dopo un’ora e quaranta, lascia la strana impressione di essere di fronte due film.
Il primo nel solco di tante saghe viste e riviste: il fuggitivo che dai lager del Terzo Reich approda nella terra di tutte le opportunità, l’America, con la Statua della Libertà che accoglie i miserabili resti umani stipati su bastimenti e diretti a disinfezioni ed emarginazioni varie.
La Statua però stavolta è rovesciata, poi diagonale, infine riesce a raddrizzarsi.
Ad ogni modo la sorte che attende Laszlo Toth (Adrien Brody) è fortunata, se paragonata ad altri.
Una serie di circostanze fa sì che dall’essere accolto dal cugino Attila arriverà poi ad un ricco mecenate un tantino su di giri nelle sue manifestazioni, ma capace di individuare il talento che ha di fronte.
Laszlo infatti era un grande architetto di fama nato e vissuto a Budapest fino a quando la Germania di Hitler decise che la sua opera non funzionava per il Terzo Reich.
Moglie e nipote bloccate all’Est, lui le aspetterà per anni.
A lui il signore miliardario affiderà l’incarico di progettare un memoriale/centro polifunzionale nella sua tenuta, e fin qui tutto bene, moglie e nipote arriveranno dall’Europa e… non vissero tutti felici e contenti.
La pausa ci lascia sospettosi, cos’altro può accadere nelle altre quasi due ore?
Di tutto, inutile fingersi ingenuamente ottimisti, Brady Corbet prende la vita e ce la sciorina davanti così com’è, con tutte le cadute, le volgarità, le perversioni, o, semplicemente, i voltafaccia che perfino chi credevamo amico non ci risparmia.
Raccontare cosa succede vorrebbe dire spoilerare, e ciò non va fatto, al film bisogna lasciare la sua presa emotiva, che è tanta.
Quello che va invece segnalato sono aspetti del film di ottima fattura, a cominciare dalla recitazione di Adrien Brody, certo in odore di Oscar. Bravi anche gli altri, ma lui svetta su tutti.
The Brutalist (2024): Adrien Brody
Altro merito le locations, fotografate in maniera magistrale, scorci di Carrara con le sue pareti di marmo bianco, il sole rosso del tramonto sul mare di Ellis Island, l’arrivo turbinoso e straccione degli emigranti dall’Europa di fronte a cui gli sbarchi a Lampedusa non hanno niente da invidiare.
Ma merito centrale del film è lo straordinario esempio di architettura brutalista a cui Laszlo si dedica al punto di farne un’ossessione.
Il suo progetto architettonico è ciò che giustifica titolo e significato del film.
Metafora di disagio sociale, il termine, coniato da Le Corbusier per descrivere lo scabro materiale utilizzato nell’Unitè d’Habitacion di Marsiglia, indaga le potenzialità plastiche del cemento armato.
L’ estetica del cemento grezzo lasciato a vista acquista una forte valenza esistenziale per chi, come Laszlo, è reduce da città distrutte, ha vissuto l’orrore dei lager, ha visto la sua vita calpestata.
L’involucro della costruzione, sia dentro che fuori, realizza un unicum spaziale senza barriere, l’uomo al suo interno si muove in libertà, nel béton brut l’architettura degli anni ’50 esperì linguaggi di grande innovazione..
Nel finale Lazlo, ebreo errante ormai vecchio, vede finalmente riconosciuto il suo valore in una grande retrospettiva veneziana.
E veniamo al finale, al bellissimo discorso della nipote che illustra al pubblico, e a noi, l’opera dello zio.
Un particolare che lei segnala, capace di suscitare importanti ricordi, è il lucernario che si apre sulla volta altissima di una costruzione di Laszlo.
Bisogna far entrare la luce, comunque, anche se da uno spiraglio.
Bene, a Berlino, nel 2001, fu inaugurato il Museo Ebraico dall’architetto Daniel Libeskind, uno dei più grandi d’Europa nel quartiere di Kreuzberg, non lontano dal Checkpoint Charlie e da dove un tempo sorgeva il Muro.
In puro stile Brutalista, rispetta il concetto di open space e la linearità spoglia del cemento a vista, qua e là coperto da lastre di zinco.
A forma di una linea a zig-zag, percorso da finestre sghembe che sembrano ferite, porta ad uno spazio interno senza finestre, un altissimo imbuto teso verso l’alto, sulla cui sommità si apre uno spiraglio e luce e rumori esterni entrano nel buio.
Shoah, esilio e continuità della storia si fondono come in The Brutalist, la traversata è nel mare in tempesta della vita.
Si torna da Buchenwald e da Dachau come Laszlo e la moglie malata, Erszbeth, e si entra in altre “zone di disinteresse”, dove si ama, si odia, ci si droga e si fanno capolavori.
E, a proposito di simboli di cui l’umanità sembra non poter fare a meno, chiude l’ultima scena una Croce latina rovesciata, come la Statua della Libertà.
The Brutalist (2024): locandina
www.paoladigiuseppe.it
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