Espandi menu
cerca
The Brutalist

Regia di Brady Corbet vedi scheda film

Recensioni

L'autore

EightAndHalf

EightAndHalf

Iscritto dal 4 settembre 2013 Vai al suo profilo
  • Seguaci 233
  • Post 59
  • Recensioni 1054
  • Playlist 35
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su The Brutalist

di EightAndHalf
6 stelle

Non è un film con cui essere frettolosi, The Brutalist, opera terza di Brady Corbet che racconta ancora una volta la storia dell'ascesa contradditoria di un personaggio di rilevanza sociale e artistica, dopo The Childhood of a LeaderVox Lux. Estremo nella confezione - 3 ore e 35 minuti in pellicola VistaVision - ma minimale nella struttura narrativa, lo sforzo di Corbet è di evocare la storia dell'immaginario architetto Laszlo Toth senza deviazioni eterogenee, restando sul filo dritto e lineare delle vicende di un personaggio che viene in qualche modo costretto alla megalomania mentre cerca di salvarsi dall' (auto)distruzione. Toth, interpretato da un fenomenale Adrien Brody, emigra all'inizio del film dall'Ungheria del neonato secondo Dopoguerra agli Stati Uniti, simboleggiati dalla visione di una Statua della Libertà rovesciata nella prima sequenza, dopo il caos interno alla nave che l'ha portato a Ellis Island. Il suo desiderio è trovare, in quanto ebreo, un luogo in cui vivere in pace e lavorare senza discriminazioni, anche se scoprirà presto che le discriminazioni non passano solo dai maltrattementi, ma anche da oscuri rapporti di lavoro e di potere, mancanza di empatia e sottili perversioni. 

Il pensiero più scontato che viene su The Brutalist è quello sulla forma narrativa del film: dritta, classica, netta, a zero entropia. Diciamolo, propriamente brutalista. La sfida sembra essere proprio stressare la forma-film pur rimanendo un monolitico blocco di cemento, svettante e rigoroso sopra la storia dei personaggi, lunghissimo ma chiuso in se stesso, riassumibile, concettuale. Non siamo insomma dalle parti di un grande racconto leoniano, o di una scontata riproposizione del fallimento del sogno americano: Corbet ci trascina nel melodramma raggelato dei suoi personaggi ammonticchiandolo pietra su pietra intorno a loro, rimanendo il più delle volte vicinissimo ai volti mentre le scenografie sfumate (qualcuno ha detto Laszlo Nemes?) si costruiscono attorno ai corpi, esattamente come l'edificio che a Toth viene commissionato proprio dal ricco mecenate Guy Pierce, affascinato per ridicolo desiderio esotista dallo stile di Toth. L'arrivo di Felicity Jones, nella parta della moglie di Toth, apertura della seconda parte del film, è il termine melodrammatico in più: bloccata dai dolori dell'osteoporosi, il personaggio di Eszébet vive delle recriminazioni estreme di una donna innamorata, istintiva, orgogliosa, interpretata brillantemente.  

Se è vero che la storia tiene desta l'attenzione dello spettatore per tutta la sua durata, non tutto forse torna nella cerebralità tecnica di un film tanto classicista. Ossessionato dall'architettura, che nel film è metafora insistita dell'ambizione, della rivendicazione politica, alla fine addirittura del sogno sionista, The Brutalist trova una chiave per ogni cosa e sembra non far corrispondere l'estremo della forma con un estremo di contenuti, o con qualcosa che scomodi lo spettatore fuori dalla cura maniacale per le interpretazioni: se anche il dramma in sé si mantiene robusto, meno si può dire dei suoi risultati - teorici o pratici che dir si voglia. Un elefante che partorisce un topolino, tanto più che la frase finale pronuncia "non è importante il viaggio, è importante la meta". Ne deriva un film stranamente inattuale, che dell'attualità prende solo i lustrini, i feticismi, la stiloseria di una regia ammiccante. Una creatura insomma da cinema festivaliero, che flirta con altri grandi racconti cinematografici americani del Nuovo Millennio (There Will Be Blood, per citarne uno) ma urta contro l'ostinazione a non contraddirsi mai, a non mettersi mai davvero in crisi, nonostante vaghe ambiguità psicologiche e personaggi poco accomodanti. Il fatto che Laszlo Toth sia lo stesso nome dell'ungherese che nel 1972 sfregiò la Pietà di Michelangelo non attiva i paradossi sperati, ma sembra ribadirci solo la brama del film di risultare tattile e pungente. Ma forse è solo sfoggio manierista di uno stile mai esistito.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati