Regia di Rose Glass vedi scheda film
Presentato nella sezione Berlinale Special Gala dopo il passaggio al Sundance Film Festival, Love Lies Bleeding è uno scioccante (!) thriller pulp violento ed erotico che, pur essendo un prodotto di altissimo livello della A24, sfrutta i codici e le soluzioni del B-Movie.
Ammiccante (anche furbo) e citazionista, volutamente ironico e diretto da Rose Glass, al suo secondo lungometraggio dopo Saint Maud, la regista si confronta con l’America e un’idea di cinema che guarda direttamente al David Lynch di Strade perdute, al controverso Paul Verhoeven di Showgirls (davvero molti i punti in comune) o al femminista Thelma & Louise di Ridley Scott, anche con (abbondanti) spruzzate (leggi soluzioni) visive e cromatiche “alla Nicolas Winding Refn”, e reclamando per la sua pellicola la stessa dose, se non maggiore, di sesso (e promiscuità) e violenza.
Love, Lies, Bleeding non ha paura di niente, sembra voler dire la regista che costruisce una storia d’amore (e morte) carica di sesso, violenza e sentimenti estremi con forza dirompente, mostrando l’altra faccia degli anni ’80, quella più scomoda e violenta, più adulta di quella rivisitata spesso al cinema.
L’eccesso è fin dall’inizio la cifra stilistica del film tra muscoli gonfiati, steroidi dagli effetti particolari, orgasmi lesbici e omicidi irrazionali ma che non sempre riesce controllare, specie nella sue deviazioni più orrorifiche, e che accompagnano la deriva di una pellicola che a poco a poco abbandona il racconto sentimentale trasformandosi prima in un dramma familiare, poi in un noir e poi a seguire una black comedy, un monster-movie (con tanto di mutazione all’Incredibile Hulk) per finire poi in una fiaba gotica per una lore (quasi) da leggenda metropolitana in un finale dal forte impatto ma (probabilmente) divisivo, destinato a far discutere.
Dal canto suo Rose Glass ne esaspera sia la vena dark della sua componente thrilling che l’ossessione esplicitamente cronenbergiana per il corpo muscoloso di una delle due protagoniste, figure femminili assolutamente centrali, certo, ma che in fondo rispettano pesantemente certi stereotipi maschili (quasi volesse sbatterli in faccia al pubblico, questi stereotipi) e, in questo senso, il fulcro della pellicola non poteva che essere una palestra in cui si allenano nerboruti rappresentanti del genere "umano" (maschile e femminile), espressione malsana dell’edonismo dell’epoca (e con tanto di slogan vagamente coercitivi affissi alle pareti).
Un mondo, quello della provincia americana, in cui c’è la radicata predisposizione a risolvere i propri problemi attraverso la violenza o l’omicidio.
Ma è proprio l’eccesso e accumulo di generi ed elementi (anche) contrastanti a funzionare meno, tra così tante tentazioni che non sempre la regista riesce a frenare la propria indole, come non sempre riesce a controllare gli aspetti più pulp del mondo criminale, attestando la pellicola come un semplice esercizio di stile, un divertissement anche (parzialmente) riuscito ma nulla di più..
Protagonista del film Kristen Stewart in un ruolo che sente palesemente suo e che le regala una dimensione espressiva che varia dal drammatico al comico in un continuo cambio di registri.
Al suo fianco la sorprendente Katy O’Brian, lottatrice di arti marziali passata alla TV e al cinema (era in Agents of SHIELD, Z-Nation, Black Lightning, Ant-Man and the Wasp: Quantumania e The Mandalorian), Ed Harris, Jenna Malone, Dave Franco e Anna Baryshnikov.
VOTO: 7
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