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Il cuore criminale delle donne

Regia di Aluisio Abranches vedi scheda film

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La recensione su Il cuore criminale delle donne

di degoffro
6 stelle

Firmino Santos Guerra è un ricco proprietario terriero che vive nel nord est del Brasile. Rimasto vedovo con due figli difficili, arde dal desiderio di poter riconquistare Filomena Capadocio, donna amata trenta anni prima, anch'essa ricca latifondista e ora madre di cinque figli. Ma, quando viene respinto con forza e sdegno (l'immagine silenziosa e suggestiva, immersa in una natura selvaggia e primitiva, del loro (re)incontro con conseguente rifiuto di Filomena, apre il film e viene ripetuta più volte nel corso della vicenda), si vendica ordinando la morte di tutti i maschi della famiglia Capadocio. E' Filomena allora a riunire le sue tre figlie Maria Francisca, Maria Rosa e Maria Pia (le tre Marie del titolo originale) perché la aiutino a portare a termine la sua vendetta, senza sporcarsi le mani, in modo tale che così non si possa risalire a loro: "Non sono rimasti uomini nella mia famiglia, ma il coraggio!", dice solenne. Ordina così a Maria Francisca di mettersi sulle tracce di Zé das Cobras, allevatore di cobra e assassino su commissione; Maria Rosa dovrà invece cercare Capitano Tenorio, commissario di polizia, famoso per la sua infallibililità nell'usare coltelli e machete; la più giovane Maria Pia andrà a Recife, in un carcere affollato di criminali violenti e spietati per fare evadere Jesuino Cruz, altrimenti noto come "il cavallo del Diavolo". Le tre ragazze dunque, ognuna alla ricerca di un diverso sicario, partono per viaggi che le metteranno di fronte alle loro vere identità (dietro ai loro sensuali, ben torniti ed avvolgenti corpi si nascondono killer ferocissimi e senza pietà), scavalcando per sempre il muro di convenzioni che le vorrebbe rassegnate, in quanto donne, ad un ruolo subalterno e remissivo. Dopo la collera coniugale di "Un bicchiere di rabbia", il regista brasiliano Aluizo Abranches ritorna alla regia con una storia di sangue e vendetta, che sembra prendere forma da un racconto popolare, narrato dai cantori che di villaggio in villaggio tramandano verità e leggende per tutto il paese. La storia delle tre figlie di Filomena Capodocio, istigate dalla stessa madre a compiere la vendetta sugli uomini che hanno ucciso il loro padre e i fratelli, è ambientata in una parte ancora arcaica e postmoderna del Brasile in cui la realtà somiglia molto al teatro del Grand Guignol e dove il sangue scende copioso mentre la violenza si giustifica attraverso una necessità disperata e personale. Leggi d'onore perseguite anche e sopratutto dalle donne che con altrettanta ferocia e crudeltà ("La donna e il serpente hanno lo stesso sangue" recita un dialogo) uccidono i propri nemici, siano essi antichi amanti o amici d'infanzia, con la sola differenza di essere lacerate interiormente dal tormento per aver ucciso. Il viaggio alla ricerca dei sicari delle tre Marie, che a tratti si riassume in un disegno su una tela grezza dai colori terrosi, illuminato da una struggente sinfonia di violini, non è altro che una personale ricerca e accettazione della parte più violenta e primitiva di sé (il cuore criminale delle donne appunto). Dapprima vicinissima ai visi delle protagoniste, devastati dalla sofferenza o irrigiditi nell'inevitabile e fatale desiderio di nemesi, la macchina da presa allarga in seguito il quadro a comprendere pareti dipinte simbolicamente di blu e rosso o paesaggi sabbiosi, spazzati da un vento che sembra voler strappar via ogni umanità. La scarna sceneggiatura sfugge alle regole della narrazione: si sottrae alla descrizione dei personaggi preferendo invece comporre un decalogo del dolore e della vendetta, in cui è ammissibile la rabbia ma non le lacrime, che rischiano di lavare via l'odio: "Voglio il lutto, non le lacrime, il dolore non l'acquazzone. Mai concedere al dolore di cibarsi prima di dare nutrimento all'odio", sentenzia infatti Filomena, una Marturano tormentata e introversa che, invece di cercare marito e accasare le figlie, cerca di dimostrarci nuove vie possibili della tragedia classica. Abranches supplisce all'evidente e voluta mancanza di impianto narrativo con la forza delle immagini, a volte bellissime e di grande effetto, con un impianto scenico, ispirato al teatro, assai evocativo, fiammeggiante e stilizzato, con un racconto efferato, mitologico e crudele (l'incipit con i tre cruenti e spietati omicidi degli uomini di casa Capodocio è davvero forte ed impressionante), con un ritmo secco e rapinoso, con dialoghi, echi, modi e cadenze altisonanti e solenni, lapidari e ieratici, a volte pomposi, spesso a rischio di ridicolo involontario, da tragedia antica, con un cast femminile in gran spolvero che sembra venire dritto dritto da un'opera di Almodovar. E il suo western al femminile (merce rarissima, Duello al sole a parte) ha la straordinaria capacità di saper sostenere (e dunque rappresentare) la furia femminile che rende donne belle e sensuali (non brutte e arcigne) erinni assetate di sangue e disposte a tutto, senza farsi soggiogare dalla disperazione, pur di realizzare la loro tremenda e atroce vendetta. Certo, senza perdersi in inutili e gratuite letture psicologiche del tipo un viaggio allegorico nella profondità dell'animo femminile, è evidente come ormai un film sul dolore non può prescindere da una somma di catastrofi che sfidano ogni legge della plausibilità e si presentano come il concentrato di mille puntate di una telenovela (ma anche qui il regista gioca d'anticipo e si tutela da ogni possibile critica facendo dire a Filomena "La disgrazia quando arriva porta sempre con sé il suo gregge"). Ne "il cuore criminale delle donne" dunque si accumulano i deliri ondivaghi di cento sceneggiatori di feuilleton televisivi, unica maniera possibile per mettere in piedi un dramma di vendette che suoni minimamente efficace per un pubblico ormai anestetizzato. E alla fine, superate le inevitabili resistenze, se si sta al gioco, bisogna riconoscere che l'operazione funziona: il mix grottesco e surreale di western, pulp, fumetto, tragedia, telenovela, melo, noir, cinema indipendente e estetica da video clip, eros e thanatos, tutto virato in rosa (si fa per dire visto che le protagoniste sono istituzionalmente delle dark ladies, in quanto in lutto), sfacciato, eccitato e sovraccarico come può essere solo un film di Baz Luhrmann, conserva, grazie al talento visivo di Abranches, un sua coerenza e coesione fino alla fine, riuscendo a trovare la sua sintonia e forza, forse precaria, ma pur sempre in equilibrio, sulla somma e la reazione di tante contraddizioni. Presentato nella sezione "Panorama" al Festival di Berlino del 2002.
Voto: 6/7

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