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L'esorcista

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'esorcista

di ed wood
8 stelle

Rivedere questo film la notte di Natale non è stata una idea così malvagia. Anzitutto perchè ho avuto modo di godermi ancora una volta quello che, prima che un film, resta una icona della cultura horror, un oggetto così amato e parodizzato in 40 anni di culto che non ho potuto fare a meno di sorridere benevolmente ad ogni schizzo di vomito, ad ogni bestemmia, ad ogni convulsione della piccola Regan. Ma non è solo il piacere di aver riassaporato il gusto genuino e incontaminato di un'opera pionierista (nel bene e nel male) ad aver reso la mia veglia natalizia così interessante. C'è anche il fatto che adesso mi tocca rivalutare, almeno in parte, il buon Friedkin. Non l'avevo mai considerato un "élite director", forse perchè pesa il confronto coi suoi connazionali coevi, i prìncipi della New Hollywood, quei vari Altman, Scorsese, Coppola, Peckinpah (e per un solo, ma splendido film, anche Rafelson, Bogdanovich, Hellman, Cimino, Milius) che restano a mio parere un gradino sopra il controverso regista di Chicago. Però la sua regia in Friedkin è qualcosa che merita certamente attenzione e che rivela una sensibilità, una poetica, alcune idee forti. Se L'Esorcista è un cult, il merito principale va forse alle scene splatter, ma se è anche un gran bel film, il merito (a parte l'ottimo cast) è tutto del regista. Il copione infatti presenta intoppi e lacune: la figura della madre e il suo rapporto con la figlia avrebbe meritato maggior definizione; il senso di colpa e lo smarrimento della Fede, esperiti dal gesuita Karras in seguito alla malattia/morte dell'anziana madre, sono accennati forse un po' pretestuosamente; così come l'intervento conclusivo del veterano dell'esorcismo pare un po' sconnesso col resto. E anche il tema dei limiti della scienza medica viene presto abbandonato. Il fatto è che a Friedkin tutte queste cose, in fondo, non interessano. Come non gli è interessato nemmeno di costruire un impeccabile meccanismo di suspence hitchcockiana o di tenere un ritmo sostenuto. Per quanto paradossale possa essere per un classico del "cinema di paura", all'Esorcista manca la brillantezza, lo smalto. E' lento, prolisso specie nella prima parte, dedicata all'esposizione dei vari personaggi (in cui però la direzione della piccola Blair è eccezionale, anche per merito dell'attrice, e suggerisce tutta quella serie di ambigue sfumature morali che poi "faranno" il film nel suo proseguio). E non può assolutamente gareggiare con gli split-screen di De Parma (Carrie) o le soggettive di Carpenter (Halloween), tanto per restare negli anni 70, in quanto a ritmo, tensione, dinamismo, concisione, "senso del cinema" etc...E allora cosa c'è di bello in questo film? C'è il modo intelligente, sottile, inquietante in cui Friedkin traduce in immagini il tema di fondo della pellicola (e filo rosso della sua intera filmografia): l'ambiguità fra Bene e Male, il sornione e mellifluo "scivolamento" dell'uno nell'altro, e viceversa, fino all'impossibilità di distinzione. Un tema risaputo, ma che Friedkin traduce qui in puro linguaggio filmico. Basta accorgersi di come giustappone i rumori infernali di Satana all'inquadratura precedente/successiva, lasciando come una scia demoniaca su quella che si presenta, ai nostri occhi, come normalità quotidiana. O come alterna, al montaggio, sequenze dilatate, placide, ristagnanti, a piccole ellissi che spostano ogni volta una tacca più in là il livello della componente malefica: la peculiare, insolita, strisciante progressione drammaturgica sortisce così lo stesso effetto di una fitta allo stomaco, che va e viene rendendoci frustrati, timorosi e impotenti. E' come se il Male giocasse a nascondino con noi, si annidasse fra le pieghe del montaggio come la polvere negli angoli di una casa; come se il Demonio uscisse alla luce in quelle improvvise ellissi, senza essere visto, per contaminare la successiva, magari prolungata sequenza. Questo slittamento morale, questo Diavolo "ad intermittenza", questo ping-pong fra pieni e vuoti si incarna, nel climax finale, nei due protagonisti, Regan e Karras, che si palleggiano il maligno da un corpo all'altro: ciò che Friedkin aveva fatto fra una inquadratura e l'altra, la piccola e il prete (due diverse, ambigue, contraddittorie espressioni di "purezza") sperimentano sulla propria pelle. E alla fine, vince il Male ovviamente: la sua richiesta di sacrificio è esaudita. Ma è forse il sacrificio meno catartico della Storia del cinema: perchè il Diavolo continuerà a nascondersi negli anfratti più oscuri delle ellissi friedkiniane, pronto a deflagrare. 

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