Regia di Luigi Comencini vedi scheda film
Un omicidio “sconvolge” la melliflua routine del circolo perbene della Torino che conta, costringendo il Commissario Santamaria a muoversi con circospezione in un’indagine che si preannuncia complicata.
La città di Torino, negli anni 70, poteva essere considerata, nel bene o nel male, la capitale economica d’Italia, sotto il giogo della potente famiglia proprietaria della famosa fabbrica d’auto italiane. Il codazzo di “alta borghesia” della “famiglia reale” non mostrava la cafonaggine della “Milano da bere” craxiana del decennio a venire, ma si muoveva “gattopardescamente” nelle sue decadenti incombenze giornaliere, non toccata (o solo parzialmente) dagli anni di piombo e dallo scontro sociale in atto nella città operaia per eccellenza e nel resto d’Italia; perché la nobiltà torinese vive in collina e non vuole pensieri, contorta “mortalmente” nella proprio tedio e nelle proprie piccolezze ingigantite. Come la “diatriba” iniziale del film sulla corretta pronuncia della parola “Boston” tra Anna Carla Dosio (una splendida Jacqueline Bisset) ed il suo amico Massimo Campi (un convincente Jean-Louis Trintignant) presentazione esemplare di questo stato sospeso. Comencini dimostra da subito di conoscere il senso del notevole racconto di Fruttero e Lucentini (grazia anche all’agile sceneggiatura di Age e Scarpelli), introducendoci brevemente, ma con convinzione e senza “sprechi” registici, in questo microcosmo autonomo, disturbato dalla presenza e dai modi del sordido Architetto Garrone, interpretato da un bravissimo Claudio Gora (eccellente nella caratterizzazione del personaggio). Ci viene mostrata compiutamente la noia imperante di un mondo di fortunati ma ignavi benestanti, falsamente democratici e fiaccamente libertini nello sfogo dei loro vizi e delle loro scappatelle “di facciata” da contrapporre agli stanchi rapporti ufficiali. La morte violenta del già citato Garrone viene a scombussolare il loro blando tran-tran, senza l’enfasi che ci si aspetterebbe alla notizia di un omicidio di un conoscente, ma solamente come una possibilità fugace di provare un’emozione vera, non anestetizzata dalla monotonia. Il regista sceglie pertanto di concentrarsi sui volti dei suoi personaggi, riprendendoli spesso in primo piano, per cercare di disvelare l’emotività nascosta e la scintilla vitale dietro la squallida maschera della quotidianità, provando ad immaginarseli (con veloci flash-back nella mente del Commissario Santamaria) nell’atto ferale della belva assassina ma, finalmente, libera. Il giallo classico assume quindi un valenza politica e sociologica, come nelle intenzioni del romanzo ispiratore, solo leggermente più annacquata rispetto a questo (tutta la splendida parte ambientata nel Balon, centrale nel racconto, viene sfruttata poco) e più tendente alla commedia, seppur caustica. Difetto da poco, comunque, presto dimenticabile nell’economia di un grande film, ottimamente sostenuto anche dall’arrembante commento musicale di Morricone e dalla triste fotografia di una Torino oscura ed indifferente, necessari per meglio definire il “mood” della pellicola.
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